SONO GAY, CHE CI POSSO FARE???

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“Carissimi mamma e papà, spero mi scuserete se per comunicare con voi uso questa lettera, ma proprio ora che sto morendo volevo rendervi partecipi di quanto realmente nella mia vita accade, ogni singolo giorno.

Volevo ringraziarvi per tutto ciò che avete fatto per me. Mi avete reso l’uomo che sono oggi, educato leale e gentile, soprattutto sincero.

Vi sorprenderà sapere che al contrario vivo una vita nella menzogna, fingo di essere ciò che non sono. Per troppo tempo ho fatto l’uomo “normale”, come piaceva alla società, che ancora non accetta quelli diversi.

Sappiate che non sono in un letto di ospedale perché Giulia mi ha lasciato, come voi pensate.

Giulia è stata una donna senza dubbio importante nella mia vita, ma qualcuno ha rappresentato qualcosa di più per me.

Ricordi mamma quando durante una funzione in chiesa mi dicesti che avevi la sensazione che il mio amico Carlo fosse omosessuale e che Dio non avrebbe gradito che quelli come lui partecipassero alla festa della domenica o facessero la comunione?

Oggi voglio dirti che sono un mucchio di cazzate, Dio ama ogni sua creatura senza precondizionamento e senza giudicare quelli che per dogma non sono graditi all’essere umano.

 Quelli come noi mamma. 

È giunto il momento che sappiate che è Carlo l’uomo che ho sempre amato, è lui l’uomo per il quale un mese fa ho tentato il suicidio che mi ha portato qui ora, rinchiuso tra quattro mura di ospedale, che saranno probabilmente l’ultima cosa che i miei occhi vedranno.

Non posso più mentire a me stesso, non posso più mentire a voi dopo la morte di Carlo.

Quelli come noi non sono mai stati davvero compresi, siamo costretti a nasconderci da occhi indiscreti, perché due uomini che stanno insieme sono un cancro inguaribile.

E pensare che proprio ora che sono qui capisco invece quanto sia importante avere la salute; che il vero cancro è l’indifferenza di taluni esseri umani verso gli altri loro simili….

Sono gay, che ci posso fare? Sono anche vostro figlio, questo non potete dimenticarlo.

Io vi ho sempre accettati per ciò che siete, perché non dovreste volerlo/poterlo fare anche voi?

Un figlio non pretende molto, se non avere l’amore e il consenso da parte dei genitori e noi figli non ci poniamo il problema di come siete, di come vestite, di chi frequentate, di quali sono i vostri studi né di quale sarà il vostro percorso. Noi vogliamo solo che viviate il più a lungo possibile per restare al nostro fianco, e vederci crescere.

So di avervi dato un dolore immenso ora, ma non sarà mai più forte di ciò che accadrà a breve, in questo letto di ospedale.

Quindi fatevi forza e se davvero mi amate, accettatemi per tutto ciò che ho scelto di essere in questa vita, perché è stata una vita sicuramente dura ma piena, piena di amore che io e il mio compagno abbiamo condiviso insieme, esattamente come voi due.

È vero, non possiamo procreare, ma non possiamo neppure andare contro natura, fingendo di essere chi non siamo per la paura di venire derisi.

Vi amo mamma e papà e vi amerò sempre.”

Vostro, Mauro

Perché è così difficile per i ragazzi come Mauro riuscire ad affermarsi agli occhi della società come uomo omosessuale, che ama un altro uomo?

Sarà forse colpa delle aspettative che troppo spesso i genitori ripongono nei figli, come quella che seguano un certo percorso di studi, di vita, lavorativo, senza rendersi conto che è importante non dare ai figli le cose migliori, ma quello che è meglio per loro.

Ho sentito genitori dire: “Preferisco un figlio malato ad un figlio gay!”. È stato per me aberrante, un bastone conficcato nello stomaco. Come se essere omosessuale fosse una malattia mortale; si preferirebbe una malattia più congeniale guaribile con i farmaci magari.

Ed ecco che aprendo i quotidiani vedo che si tengono anche corsi per far cambiare orientamento sessuale ai gay duri di comprendonio, che proprio non vogliono saperne di diventare etero.

Questa mancanza TOTALE di rispetto di ogni individuo non ha fatto altro che apportare danni alla nostra Società, dove veniamo indottrinati a seguire come timorati di Dio il percorso di Adamo ed Eva e viviamo con i precetti di qualcuno vissuto oltre 2000 anni fa.

Se solo alcuni sedicenti cristiani seguissero quanto Dio vuole loro insegnare, comprenderebbero proprio che egli non punisce le creature dello stesso sesso che si accoppiano, ma coloro che fanno del male ai loro simili!!!

Anche in natura esistono creature animali dello stesso sesso che si accoppiano sia in cattività che in ambiente naturale. Ne sono un esempio i delfini, le pecore, le scimmie antropomorfe e molte altre specie presenti in natura. Allora chi ha creato quelle creature? Forse un altro Dio,  un Dio deviato??

Fino a quando non sarà riconosciuta a ciascun essere umano la facoltà di sentirsi libero di esprimere anche la propria sessualità oltre al proprio pensiero non saremo mai liberi, ma solo schiavi.

Provate a pensare a quando conoscete una persona davvero interessante, intelligente, colta, con la quale condividete interessi particolari e momenti piacevoli. Quante volte vi siete posti il problema se fosse omosessuale, o meno?

MAI. Perché quella persona è interessante, intelligente e colta, piacevole, al di là del proprio orientamento sessuale.

Sappiate aprire la mente, il cuore, guardate oltre e giudicate non per partito preso, ma solo per ciò che realmente avviene intorno a voi o direttamente alla vostra persona.

Preoccupatevi di più del vostro vicino, curate la vostra famiglia, abbiate rispetto della vostra casa e dell’ambiente, di Madre Natura che tanto ci ha dato e che fa vivere in coesione tutte le creature.

Smettetela di lamentarvi di ciò che non va, e cambiate rotta se la vostra vita ha preso il binario sbagliato.

Riflettete gente, riflettete sulla cattiveria che cercano di scatenare in noi alcuni mezzi mediatici e proteggete i più deboli, e non sentitevi troppo sicuri, poiché un giorno potrebbe toccare a voi.

Vi saluto con una frase scritta da un utente anonimo su Internet:

Non esiste crimine più grave nell’impedire a due persone di amarsi.

Ed aggiungerei…. Al di là del loro sesso.

 A presto, Letizia T.

I nonni…

nonna e bambina

Non potevo tralasciare di parlare con questo capitolo di coloro che rappresentano in sostanza e concretezza la base della mia educazione e tutti i principi sui quali è fondato ogni mio credo: parlo dei nonni e della loro presenza nella vita dei nipoti.

Sono figure fondamentali nella vita di un bambino. Per me è stato così, se non fosse per loro non sarei qui tanto per cominciare, e non avrei mai capito cosa lega davvero due persone per 57 anni l’una all’altra; insieme hanno creato un rapporto di profondo rispetto, feeling e complicità, anche di fronte ai problemi che nella vita si sono posti davanti a loro, quando è scoppiata la tragedia della perdita di una delle figlie, e quando hanno avuto i problemi che tutte le coppie prima o poi affrontano.

I nonni sono rocce sulle quali possiamo contare ogni istante della nostra vita, sono stati genitori a loro volta, ed hanno imparato dai loro errori, come quello di trascurare i figli per il troppo lavoro ad esempio, quindi riservano al nipotino tutte le attenzioni, le preoccupazioni e le ansie quasi come se per loro si riaprisse un capitolo nuovo e fossero nuovamente genitori.

Potrò dirmi fortunata se un giorno diventerò nonna, vorrà dire che per me inizierà una seconda vita. Dal canto mio spero per l’età della pensione di godermi un po’ la vita, non voglio essere il genere di nonna che vive per il nipotino, io vorrei stare con lui, ma i figli sono principalmente dei genitori, non dei nonni.

La cosa bella dei nonni è che anche quando non li vedi a causa della distanza, è come se non fosse cambiato nulla dall’ultima volta, il tuo cuore scoppia di felicità nel vederli, sai che da loro puoi aspettarti la parola dolce, il regalino che mamma e papà non ti concedono, il sostegno nello studio o nelle tue passioni perché hanno tempo a disposizione.

Che belli i nonni, io lo dico sempre, anche se siamo lontani da tutti e quattro i nonni, quando finalmente ci riuniamo ecco che siamo tutti di nuovo lì insieme, come un tempo, con il calore del camino acceso e le caldarroste in inverno, l’immancabile scialle o plaid sulle gambe perché loro sono freddolosi e fanno tutte le loro raccomandazioni su quanti strati di abiti dovrai mettere al bambino perché ha le manine gelate e i piedini gelati (e credetemi, qui si parla di amore, non dell’ansia di cui parlavo nei capitoli precedenti).

Ecco, loro per me sono tutto questo: un immutabile ricordo di cucina casalinga, di profumo di pane, bucato, di coccole sincere, di aspri rimproveri, di tutto quello che rappresenteremo perché in fondo in noi c’è anche una parte tangibile di loro.

A volte possono nascere scontri tra la mamma e la nonna a causa delle insicurezze che alcune mamme possono avere nel loro “esclusivo” rapporto con il figlio (diventiamo anche noi gelose di nostro figlio come le suocere che tanto critichiamo), oppure a causa della troppa invadenza della nonna, che non tralascia neppure un’occasione per far presente alla mamma quanto sia utile ascoltare i suoi consigli, data la sua ottuagenaria esperienza, senza fare affidamento sul fatto che esiste un’esperienza che ognuno di noi ha diritto di praticare da sè, senza consigli di questa o quell’altra persona.

Ma i nonni sono belli anche per questo, lo fanno per aiutare, non biasimateli dunque, un giorno potrebbero mancarvi.

Quindi per questo voglio ringraziare di cuore tutti i nonni, che con la loro presenza arricchiscono la vita dei nostri bambini, sappiate apprezzarli, finchè ci sono.

da “Manuale della mamma fai da te” di Letizia Turrà

Photo: Internet

I miei sei anni e i miei ricordi… quando la mente ti riporta indietro.

2015-07-29 07.02.11

Apro la scatola di pastelli di cera.

Il suono è diverso dagli altri: è rigida, l’odore che ne fuoriesce è inconfondibilmente vicino al legno puro, i colori sono vivaci, si intuisce che si tratti di pastelli artigianali.

Li prendo uno ad uno e li sfioro con le dita: sono ruvidi, lunghi, e con l’indice ne sento la punta zigrinata.

La mia mente subito viene riportata ai miei sei anni, al mio primo giorno di scuola.

Mia nonna mi faceva sempre il codino sulla fronte, a mo’ di unicorno, avevo il grembiule nero col colletto bianco, le calzette bianche e il vestitino bello perché lei ci teneva che fossi impeccabile.

Posso ancora con la mente rivedere la scuola nel primo giorno, grande, bianca e piena di bambini.

Sembravamo tutti uguali, eppure eravamo tutti diversi, non solo per la diversa etnia.

In quei primi giorni di inizio settembre il caldo torrido che ci distaccava dal mare ci scovava storditi, ma spigliati e curiosi per quella “nuova vita” che ci attendeva.

Avevamo uno zaino nuovo, un astuccio moderno con penne nuove e brillanti, nuovi compagni, aule pulite, gessi nuovi e lavagne ancora intatte, scure come la pece.

Era tutto bello in principio.

Poi col tempo, anche quella sensazione gioviale si tramutava in un’abitudine, perdendo così la bellezza iniziale.

Allora diventavi uno scolaro, pieno di compiti, e capivi che la vita era una gran rottura!

Sorrido nel rimpiangere quei momenti tanto preziosi, in cui ho desiderato ardentemente di diventare grande, quando avrei dovuto pretendere di rimanere come ero (sarebbe stata la cosa migliore).

Adesso vivo con un’altra ottica, quella di mamma, mentre preparo quei pastelli che sfioro con cura per la mia Gaia, che a settembre ha visto l’inizio del suo nuovo percorso di alunna.

Quegli stessi pastelli che mi hanno riportata indietro a quando anche io ho vissuto quelle emozioni, che ho mantenuto custodite nel cuore, salde come lucchetti arrugginiti, ormai impossibili da violare.

Non ho mai smesso di pormi domande su quanto studiavo, e ho chiesto a mia figlia di fare lo stesso. Voglio che mantenga il suo spirito fanciullesco ma allo stesso tempo si chieda sempre se esista una verità oltre quella che vede in apparenza.

Una volta chiusa la scatola sono tornata alla normalità, ho realizzato che quei momenti non torneranno più indietro.

Almeno, non in questa vita che ho già vissuto per un terzo.

Non posso che riflettere sulla bellezza che ha il suono della voce delle mie figlie che si trovano fuori a giocare, e che sono ignare che si cresce e che la vita ti riempie di responsabilità, dalle quali non sempre puoi scappare.

Io stessa mi sono voltata e di quei giorni non è rimasta traccia, se non il ricordo della mia memoria cinestetica e il profumo nell’aria di mia madre e di mia nonna, che non sono più al mio fianco.

Letizia T.

Photo: Autentic Crayons from my private archive

Le avversità…

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Le avversità mi sono sempre servite per capire che la vita non è una fiaba dove tutto magicamente appare e scompare, ma è una sfida continua fatta di problemi e lesioni interne. Solo chi ha varcato la soglia del dolore e la affronta superandola nel livello più alto riesce a comprendere quanto sia importante ogni singola esperienza e quanto quel dolore che sembrava così insuperabile, sia un ulteriore mattone che si aggiunge alla nostra struttura morale.

Ed io quel dolore fatto di mattoni lo avevo conosciuto bene e continuavo ancora a viverlo.

Il dottore me lo aveva detto che non sarebbe stato un passaggio facile. Una malattia come il cancro ti fa attraversare momenti che vorresti solo cancellare e non rivivere mai più.

L’unica scelta che puoi fare è decidere di vivere al meglio il tempo che ti rimane e quello che trascorre.

Ero in attesa del peggio dopo quanto era successo la notte precedente.

Pensavo che Cesare sarebbe andato via per sempre ora che aveva avuto da me ciò che voleva.

Le cicatrici, che fino a quel momento non mi facevano male, avevano ricominciato a tirare come se avessi piccoli aghi sotto l’ascella.

Passai la mattina a letto ripensando alla notte con lui.

Era come se avessi ancora le mani di Cesare nuovamente su di me. Potevo anche sentire il suo respiro e rivedere i suoi occhi meravigliosi.

Per tutta la notte mi aveva stretto come si stringe qualcosa che non vogliamo vedere andare via e che temiamo di perdere.

Eravamo ormai due adulti consenzienti, che rispondevano alla loro unica volontà, quella di stare insieme.

Contro ogni mia previsione pessimistica, venne a trovarmi nel primo pomeriggio.

Mi sembrò di aver fatto un salto indietro di cinque anni improvvisamente quando lo vidi arrivare in jeans con sottobraccio un mazzetto di narcisi.

-“Se non la smetti di portarmi fiori mi farai ammalare di qualcos’altro!” gli dissi accarezzandogli il viso.

-“Nessuno è mai morto per eccesso di fiori, semmai per il contrario!”

Mi baciò tentando di togliere la bandana dalla mia testa.

-“Non farlo, ti prego. Provo ancora un certo imbarazzo nel farmi vedere senza capelli.”

-“Sbagli sai, dovresti accettare anche questo lato di te. Balla, canta, sorridi come facevi una volta. E se corri fino a perdere fiato che ti importa? E’ così che si assapora la vita, quando le ginocchia sanguinano e il tuo occhio non vede l’orizzonte. Troppo pensare, poco agire. Troppo volere, troppo poco Amore. Ora ti vestirai e verrai fuori con me.”

Letizia T.

Esiste un libro con il nostro destino?

destino

Chissà se esiste un destino già scritto. Un libro contenente la nostra storia.

Chi o cosa decide quale sarà il vagone del treno su cui saliremo o il modificarsi degli incontri a seconda dello spazio temporale?

In quale modo il nostro pensiero è corresponsabile degli eventi che si susseguono?

Vi è un romanzo già scritto per ciascuno di noi che da tutti viene definito destino?

Solitamente il destino è associato ad un evento tragico, un incidente ad esempio o un evento di portata catastrofica.

Difficilmente si parla di destino quando arriva una malattia.

Forse perché molti di noi ritengono che una malattia sia una disgrazia o la causa di una nostra negligenza.

Perché allora non parlare di destino anche in quel caso?

Al contrario un incidente improvviso viene considerato causa del destino.

Era già scritto per noi negli eventi che ci saremmo trovati quel giorno a quell’ora in quel determinato luogo.

Suona quindi contraddittorio dal momento che molte persone sostengono che sia ogni uomo ad essere artefice del proprio destino.

Non so ancora se sia qualcosa che ci chiami già dalla nostra nascita per quello che sarà più avanti la nostra vita.

Posso però sostenere in base alle esperienze, che ci sono alcune persone che non entrano per caso nella nostra vita.

Alcune entrandovi la migliorano, la rendono felice e degna di essere vissuta.

Altre la migliorano uscendovi.

Altre ancora la peggiorano nel più subdolo dei modi, apparentemente benevolo ma che con il tempo non fa che trasformare le nostre peculiarità in difetti e distruggere ciò che ci rende speciali.

Quelle persone con il loro arrivo interferiscono anche con il nostro percorso.

Usciti dall’ambulatorio, Cesare mi guardò con visibile imbarazzo.

-“Mi è successa una cosa straordinaria e vorrei condividerla con te.”

Sorrisi pensando a qualcosa di molto speciale vedendolo tanto emozionato.

-“Ho conosciuto una donna. È più grande di me, non so come sarà ma vorrei provare a conoscerla meglio e magari intraprendere una relazione con lei.”

Sbarrai gli occhi incredula.

-“Ma è fantastico! Che meravigliosa notizia mi stai dando!”

Nella realtà la potenza di un’intera montagna si scagliava contro di me prepotentemente seppellendomi ed io avrei preferito restare lì a soccombere, piuttosto che udire di quella sua felicità.

Era il mese delle notizie devastanti.

Mi ricordo solo che a quel punto mi sentii definitivamente sola nel mio dolore e le spine che avevo nel cuore si fecero ancora più dure.

Letizia Turrà, “Il labirinto di orchidee”

Michael Jackson, storia di un eterno bambino…

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Before you judge me, try hard to love me…

L’eterno bambino, la star più caritatevole del pianeta con donazioni pari a circa 400 milioni di dollari elargiti per scopi benefici e umanitari.

Ripesco dal mio archivio privato un “Rare Video”, che tengo custodito da quando sono diventata una sua fan nel lontano 1997.

È il 1993 e Michael Jackson, ormai una star multimilionaria, scarta alcuni pacchetti regalo nel giorno di Natale in un video girato da alcuni amici nella sua Residenza di “Neverland” acquistata nel 1988 per l’esorbitante cifra di 20 milioni di dollari.

È così che ha chiamato quel regno l’eterno bambino ispirandosi proprio alla fiaba di Peter Pan, figura da lui amata.

Ed eccolo nuovamente in pigiama, spettinato, che legge una favola a Paris e Prince sul suo divano di velluto rosso.

Non è mai stato bambino, Michael, per volere di suo padre Joseph è stato costretto a esibirsi dall’età di 5 anni insieme ai fratelli Tito, Marlon, Jackie e Jermaine; da lì la sua corsa non si è mai arrestata.

Michael ha l’aspetto di un nano, un piccolo James Brown in miniatura dotato di una grinta non comune e una voce davvero angelica.

Sarà la madre Katherine ad accorgersi di quella voce udendolo cantare in solitaria, un giorno, in casa.

The Jackson 5 - Wikipedia

Un bambino nato per ballare, cantare, recitare ed esibirsi davanti a un pubblico con cui manterrà un rapporto d’amore e di fiducia fino alla fine.

Costretto a fare tutto ciò che un adulto farebbe in piena coscienza, mentre Michael lo vive come un sacrificio, una privazione che lo allontana da una normale infanzia fatta di giochi con il pallone, che a lui sono categoricamente vietati da Joseph.

Brucia interiormente quel dolore, bruciano le vergate che il giovane Michael e i suoi fratelli ricevono dal padre perché protestano per le infinite ore passate in studio a registrare e a provare.

I Jackson 5 erano un prodotto e un prodotto va educato, guidato e sottoposto a una routine di profondi sacrifici col sangue, perché possa vedere compiersi la realizzazione del suo successo.

Così quel ragazzino nato a Gary in Indiana, il 29 agosto 1958, si trasforma nella gallinella dalle uova d’oro, l’opportunità di successo anche per i fratelli sicuramente meno dotati di lui vocalmente e scenograficamente.

Ben presto quel successo scala le vette di ogni classifica, i loro singoli scalzano dal podio i temuti e rispettati Fab Four (i Beatles) che se l’erano aggiudicato per “Let it be”, scritta da Paul Mc Cartney.

Il 1978 è l’anno della svolta per Michael, col debutto da solista di “Off the Wall” prodotto da Quincy Jones che Michael conosce durante le riprese del rifacimento de “Il mago di Oz”, in cui recita al fianco di Diana Ross, star musicale alla quale rimarrà sempre legato.

Off the Wall : Michael Jackson: Amazon.it: CD e Vinili}

L’album non ottiene il successo sperato ma permette al pubblico di conoscere Michael nelle vesti di solista, al di là dei Jackson 5.

È nel 1982, anno di uscita di “Thriller”, che viene consacrato come il “Re del pop”, rimasto in assoluto l’album più venduto di tutti i tempi nella storia della musica, con 110 milioni di copie vendute.

Nessuno immagina quanto grande possa essere il successo di Michael neppure la sera in cui, per i festeggiamenti del 25° anno di vita dell’etichetta Motown, si esibisce in “I’ll be there” con i suoi fratelli. Michael abbraccia i fratelli: è un abbraccio simbolico che servirà a dire chiaramente addio al progetto “band”.

Infine si volta, indossa una giacca nera e un abito colmo di paillettes scintillanti, un guanto bianco e un cappello nero.

È il 25 marzo del 1983, di lì a poco il mondo conoscerà “Billie Jean”. Il pubblico rimane col fiato sospeso, mentre Michael indietreggia facendo conoscere il MOONWALK, una tecnica di ballo imparata osservando i neri di quartiere che ballavano in strada, poi da lui perfezionata per essere esposta agli occhi del mondo.

Michael lancia mode, costumi, balli free stile; è testimonial di moto, bevande, tempo libero, e tutte le aziende lo bramano per la sua immagine vincente.

Nessuno può arrestare la sua corsa, tranne una multinazionale: un colosso del mercato come Pepsi Cola di cui Michael è testimonial nel 1989. La star e i fratelli stanno girando uno spot per la nota marca, in cui simulano un’esibizione in concerto.

Accade tutto velocemente: a causa di un problema accidentale con gli effetti pirotecnici, i capelli di Michael prendono fuoco. Il cantante non se ne accorgerà subito, se non quando gli strati di pelle verranno bruciati quasi fino ad arrivare al cranio.

Il dolore è folle, più della corsa disperata in ospedale per salvargli la vita e i diversi i trapianti di cuoio capelluto tentano di rimediare il danno.

Il risarcimento, che ammonta a circa 1.5 milioni di dollari, sarà interamente devoluto in beneficenza all’ospedale “Brotman Medical Center”, che oggi riporta il nome di “Michael Jackson Burn Center”.

Da quella tragedia Michael non si riprenderà più, i farmaci e gli antidolorifici che è costretto a prendere lo renderanno dipendente per tutta la vita da quelle sostanze.

Di lui cominciano a circolare le voci più assurde e controverse: si sarebbe sbiancato la pelle per diventare bianco a ogni costo perché lui odia il fatto di essere nero, si sarebbe sottoposto a 13 operazioni di rinoplastica, dormirebbe in una camera iperbarica per non invecchiare, nel suo ranch inviterebbe bambini allo scopo di abusare di loro, e molto altro.

Tutte fandonie che gli costano sul piano personale (Pepsi scioglie addirittura il contratto con la pop Star), e in termini economici ingenti somme di denaro.

Michael scrive “Childwood”, chiede al suo amato pubblico di amarlo davvero prima di giudicarlo come uno stupratore di bambini.

Solo la sua tenuta di Neverland è in grado di ridargli quello spazio fanciullesco perduto e a lungo desiderato.

Michael Jackson's Neverland Ranch: See Photos After Price Drop | Style &  LivingLe porte del suo Ranch sono sempre aperte. Anche per Martin Bashir, un giornalista pakistano senza scrupoli che userà il materiale girato in 8 mesi all’interno della tenuta contro lo stesso padrone di casa: per ogni confidenza privata che Michael gli farà, lui tenterà di far comprendere al pubblico che qualcosa in quel personaggio “non quadra”.

Michael lascia che i bambini dormano con lui, legge loro le favole, gioca e scherza con loro come un adulto solitamente non fa. Tutto lascia sottintendere che quell’interesse morboso celi una possibile pedofilia.

Michael Jackson's 'Neverland' Hits Market With New Name - ABC News

Quel colpo basso non farà che compromettere ulteriormente l’immagine del cantante.

Michael si dimostra debole, fragile e troppo ingenuo, è nel pieno di una causa giudiziaria con l’accusa di avere abusato di Jordy Chandler, un ragazzino che avrebbe accolto nella sua residenza con l’obiettivo di curarlo dalle sue malattie, pagando interamente  tutte le spese mediche.

Bashir tradisce la fiducia di Michael tagliando intere sequenze e omettendo le parti più importanti, facendo emergere prevalentemente i temi negativi.

Quelle accuse che si dimostreranno in seguito palesemente false, costeranno a Michael cospicue somme di denaro e anni di stress emotivo, nonché la continua dipendenza dai farmaci per riuscire a dormire.

Nel 2005 abbandona Neverland ma non il suo pubblico; la sua arte e le sue attività benefiche con la “Heal the world foundation” che rappresentano il fulcro della sua vita, proseguono.

Entra di diritto nel Guinness dei primati per il singolo più venduto di tutti i tempi (100 milioni con Thriller), record tutt’oggi mai raggiunto da  nessun altro.

Da molto tempo, però, Michael non si concede al suo pubblico con un Tour di rilevanza mondiale.

È il 5 marzo del 2009 quando durante una conferenza stampa, sorridente e ben vestito, annuncia  il suo ritorno sulle scene con una serie di concerti.

“This is the final curtain call”: “Queste saranno le mie ultime esibizioni”, afferma con disarmante certezza.

Sembra quasi trattarsi di una profezia. Il 25 giugno, esattamente tre mesi dopo, ha un malore dovuto a un’eccessiva dose di Propofol, un potente anestetico usato in sala operatoria, iniettatogli in una dose massiccia pari a 5 volte  dal medico Conrad Murray.

Muore così il Re del pop, alla vigilia dei suoi 51 anni, lasciandoci sgomenti e senza una reale forma di giustizia.

Un grido inascoltato il suo, una richiesta di aiuto dell’eterno bambino urlata a squarciagola fin da piccolo, mai compresa davvero.

Lui che aveva sempre donato, che insegnava ai suoi collaboratori che per far bene le cose bisogna farle con AMORE. “Do with Love, with L.O.V.E.”, ripeteva facendo anche lo spelling perché fosse a tutti più chiaro.

L’amore che lo ha spinto avanti per tutta la sua vita, senza fare in modo che si stancasse mai di donare al prossimo ogni briciolo di sé.

Neverland fu in seguito abbandonata, per poi essere riacquistata ad un valore nettamente più basso rispetto a quello di mercato: 22 milioni di dollari a fronte dei 100 milioni richiesti.

Addio sogni, addio giostre e go-kart, addio musica e oggetti a cui Michael era profondamente legato.

Michael Jackson: 37 anni dopo, Thriller è l'album più venduto di sempre

45 anni di musica non si possono descrivere brevemente in un articolo. Jackson ha venduto quasi 2 miliardi di dischi nel corso della sua vita. Non esiste un posto nel pianeta che non sappia chi sia Michael Jackson.

Io ho tentato di riassumere un pezzo della sua vita scrivendo di lui, perché desidero che molto dell’amore che Michael mi ha donato con la sua musica e la sua essenza in qualche modo ritorni a lui, dovunque adesso si trovi.

Molte leggende internettiane lo vogliono ancora vivo, dicono che la sua morte sia stata solo inscenata per chissà quale assurdo motivo.

È ovvio che dietro tali teorie si nasconda la mancata accettazione della morte di una persona tanto importante, speciale e al tempo stesso amata.

Una cosa che Michael diceva risuonerà sempre nella mia mente:

“La conoscenza non è fatta solo di biblioteche piene di carta e inchiostro, è anche fatta dai volumi che sono scritti nel cuore degli uomini, modellati sull’animo umano e incisi nella psiche di tutti noi.”

Addio amico caro. Addio.

Letizia T.VENDUTO IL NEVERLAND DI MICHAEL JACKSON • MVC Magazine

Amy Winehouse- Quando l’amore può fare male…

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“Tutto mi dà ispirazione… Tutto ciò che accade nella vita…”

Risuonano come tamburi queste parole pronunciate da un corpo esile, carico di emozioni e note, che sembrano voler straripare da ogni dove.

Sono quelle di una fanciulla dai capelli alti che assomigliano a nidi d’ape, scuri e grossi come le radici di un albero.

Sarà proiettato per tre giorni al cinema, dal 15 al 17 settembre, il documentario “Amy”, che racchiude gli inizi della bellissima e talentuosa cantante.

Si parla di Amy Jade, più nota come Amy Winehouse, che con il suo esordio a soli 20 anni dimostra di avere una grinta e una capacità vocale al di sopra della media, diventando la cantante Soul più apprezzata degli ultimi 10 anni.

Dovevano capirlo mamma e papà che quello scricciolo di appena 10 anni quando fonda il suo primo gruppo Rap, di strada ne avrebbe fatta tanta.

A tredici anni riceve in regalo la sua prima chitarra, e a 16 entra nella National Youth Jazz Orchestra, con la quale ha la possibilità di far vedere le sue doti canore.

Comincia a scrivere le sue canzoni, e nel 2003 pubblica “Frank”, il suo primo album, che però non le riconosce il successo che merita.

Qualche tempo dopo racconterà in un’intervista che il suo amore per la musica è nato dai dischi che origliava dalla stanza del fratello, appassionato delle grandi cantanti Soul e Jazz degli anni 30/40.

È con “Back to Black”, contenente molti brani di ispirazione personale dovuta alle sue travagliate vicende amorose, che Amy entrerà di diritto nell’Olimpo delle cantanti Soul, arrivando a vincere tre dei quattro premi attribuiti in una sola serata per Back to Black nella categoria “Migliore canzone”, cinque grammy nelle categorie “Record of the Year”, “Song of the Year” e “Best Female Pop Vocal Performance” e uno nella categoria “Miglior artista emergente”.

Piovono successo e denaro su di lei, ma ciò di cui Amy ha bisogno, che tiene nascosto sotto quella coltre di capelli e eye-Liner in realtà, è amore.

Sembra quasi volere affogare questo bisogno nell’alcol, l’unico amico che non le chiede nulla in cambio, le riempie le serate e la aiuta a dimenticare per quale motivo lei senta tanto forte quel vuoto.

Era partita come una stella destinata a non spegnersi; poi, improvvisamente il suo volto emaciato raccontava di una Amy scontrosa, irascibile, sempre in lotta con gli uomini con cui allacciava relazioni che poi finivano sbattute in prima pagina su Tabloid di poca rilevanza, che servivano più a uccidere la star che a darle risalto.

Si presenta ai concerti senza voce, si giustifica dicendo che ha avuto un enfisema polmonare, alcuni problemi respiratori e per questo passa qualche tempo in clinica.

Ormai in molti dei suoi concerti è totalmente ubriaca, vomita in un angolo, appare sempre più magra e triste, perdendo quattro taglie tra il secondo e l’ultimo album.

In fondo chi non vorrebbe una vita come quella di Amy? È famosa, ricca, amata e bella, eppure qualcosa che le manca c’è, più forte dell’alcol, più forte delle lacrime, più solido dell’amore dal quale sembra volersi districare.

Divorzia da suo marito e ricorre alla mastectomia per aumentare il seno. Cambia continuamente e stravolge il suo corpo, sul quale infierisce in tutti i modi.

Chiede l’affidamento di una bambina caraibica, che potrebbe significare la svolta per Amy, un figlio che la aiuterebbe a comprendere quale sia la motivazione che spinge avanti ogni madre: l’amore per un figlio.

Purtroppo non arriverà mai il momento in cui le due anime si incontreranno, Amy Winehouse e il suo corpo straziato dall’alcol saranno rinvenuti privi di vita nella casa della star, al numero 30 di Camden Square, un elegante quartiere di Londra, il 23 luglio del 2011, intorno alle 15 del pomeriggio.

Ricordo ancora che con sgomento appresi la notizia, fino a poco tempo prima Amy era viva, in un modo o nell’altro, e di improvviso non c’era più.

Morire a 27 anni così, sola. Chi lo avrebbe mai detto…Proprio quando trovi un equilibrio, la vita è lì pronta per colpire, a volte riprendi la rotta ritornando sul binario, altre volte le troppe scelte sbagliate concatenate tra loro ti fanno deragliare, e uscire dal binario.

Come nel caso di Amy, il treno della vita l’avrebbe portata lontano forse, e invece ha avuto uno “Stop and go”, è così che hanno definito i medici legali al termine dell’autopsia, la causa che avrebbe portato la Winehouse alla morte. Era pulita quando, non si sa per quale reale motivo, ha ripreso a bere un grosso quantitativo di alcol che il corpo non è stato in grado di sostenere soprattutto per via della sua magrezza.

È volata via quel piccolo fiore delicato con la voce nera, una voce che richiama l’anima, così come il buon Soul impone a chi lo celebra.

Le sue ceneri e quelle della nonna Cynthia, alla quale la cantante era devotamente legata, saranno unite dopo la sua morte, come Amy avrebbe voluto.

Deve essere stato anche a causa di quella perdita che Amy si è sentita destabilizzata e ha trovato nell’uso massiccio di droghe e alcol la sua consolazione.

Dei suoi genitori dirà: “Quando mio padre ha lasciato mia mamma lei ne rimase sconvolta, ogni notte piangeva, cadeva a pezzi e ho pensato che era una donna debole fino a quando ho capito che era mio padre, il debole. Non è stato capace di far funzionare le cose. Mia madre fu quella forte alla fine.”

Amy al contrario non ce la fece a sostenere tutto quel bisogno, né ad essere forte come doveva, e non ce l’ha fatta a reggere gli abbandoni.

Mi piace ricordarla con la sua spontaneità quando in tempi migliori diceva in “Do you still love me Tomorrow?”:

Questo è un tesoro che durerà? 
o è solo un momento di piacere?
posso credere alla magia dei tuoi sospiri?
continuerai ad amarmi domani?

stanotte, con parole non dette
dici che sono l’unica per te
l’unica, si
ma il mio cuore si spezzerà quando
la notte incontrerà la stella del mattino?

vorrei sapere che il tuo amore
è un amore di cui posso essere sicura
quindi dimmelo adesso,
perché non te lo chiederò di nuovo:
continuerai ad amarmi domani?”

Ecco cosa voleva Amy: Amore, niente altro. Solo amore.

E chi l’ha amata quando era in vita non potrà che amarla ancora oggi.

Riposa in pace Amy, sei salita solo un po’ più in fretta di tutti noi lassù, ma ci rivedremo per una Jam Session, prima o poi.

A presto,

Letizia T.

Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai…

lui e lei
E’ uno strano dolore.. morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai… A. Baricco

 

…”E poi guardami, sembro il brutto anatroccolo, guarda come sono magra, non so neppure di donna! Non troverò mai un ragazzo!”

Sorrise guardando i fiori che mi aveva regalato.

-“Quindi vuoi dirmi che ho portato questo mazzo di fiorellini ad una donna magra, brutta e insicura? Io credo invece che non si è mai davvero lontani da chi abbiamo amato finché cuore e mente, seppur in modo remoto, rievocano nei ricordi le persone che hanno dato senso a tutto ciò che ci circonda. Questo riguardo tuo nonno…”

-“E… riguardo me?”, dissi maliziosamente.

-“Penso che tu sia bellissima come una rosa, ma piena ancora di spine, spine che pungono facendo uscire il sangue. Sei ancora in grado di farmi male.”

Mi colpì molto quella descrizione di me che non ero mai stata in grado neppure io di vedere prima di allora.

Bella come una rosa ma colma di spine.

Lo guardai negli occhi e guardai le sue mani.

Ogni giorno in più che passava pensai che stesse migliorando col tempo, si faceva sempre più profondo e mi affascinava quel suo sguardo smarrito e furtivo. Quello sguardo che sembrava non soffermarsi su niente ma che invece riusciva nitidamente a leggere in ciascuno delle persone che incontrava con una tale certezza e un’assoluta purezza da lasciare stupiti e inquieti allo stesso tempo.

Si avvicinò per darmi un bacio, ma io mi tirai indietro.

Come tutte le cose belle che amavo, tendevo a rifuggirne per la paura che, una volta arrivate al cuore, esse non sarebbero più riuscite a soddisfare quel mio bisogno di essere “riempita” di sentimenti.

Era come se fossi attratta dal senso di vuoto che tira a sé più del pieno, che spesso davo per scontato.

“Il labirinto di orchidee” di Letizia T.

Tutti i diritti sono riservati e protetti.

Photo: Internet

Sei brutta, fai schifo! La cattiveria della rete e dei Social che possono uccidere.

How to Cover Up A Breakout, According to Beauty Vlogger Em Ford

Sei bellissima, wow, quanto mi piacerebbe conoscerti!”, e milioni di like al seguito.

Un istante dopo: “Fai schifo, sei orribile, guarda la tua faccia, è un tappeto di brufoli schifosi, sei disgustosa!”.

È ciò che è capitato a Em Ford, una blogger inglese incappata nella spiacevole esperienza di essere se stessa. Solo quello: unicamente se stessa.

Questa bellissima 23enne è stata vittima di una pioggia di insulti sulla rete dopo aver mostrato il suo vero volto al pubblico.

Era stanca di apparire perfetta (Em ha un blog dove le donne vengono istruite attraverso dei Tutorial a truccarsi per differenti eventi al fine di apparire più belle), così ha mostrato cosa c’era sotto quel trucco.

E tutte le persone che prima lodavano il suo operato con esaltazioni e complimenti, improvvisamente le si sono rivoltate contro perché così come si mostrava era brutta, piena di un’acne così vistosa, da ricoprire gran parte del suo volto.

Mi sono chiesta allora perché apparire sia tanto importante.

Vedo costantemente in rete – soprattutto sui social – foto perfette ritoccate all’inverosimile quasi come a voler far passare il messaggio che per essere giuste o idonee per chi ci osserva, si debba necessariamente possedere anche una pelle di porcellana, essere ben vestite, essere magre, avere denti perfetti.

Chi se ne importa se poi chiuso l’uscio di casa, siamo quello che realmente siamo: piene delle nostre insicurezze, piene di difetti, con l’alito al mattino puzzolente e i capelli arruffati, sudate e scontrose nel periodo mestruale, brucia padelle nonostante tutte le puntate di Masterchef, mangia cioccolato e popcorn di fronte a un film sul divano (altro che Party mondani e champagne in compagnia)!

Aprire certi giornali è diventato deprimente: esibizione di sederi scolpiti mostrati con gran disinvoltura al mare dalle Vip che nonostante quattro gravidanze sono tornate subito in forma. Il giornale (ovviamente) lo rimarca perché ci tiene che tu sappia che è necessario essere in forma sin da subito dopo la gravidanza, e ti propone di scorazzare facendo zumba con il passeggino per strada così da perdere più calorie (guai a te se ti permetti un po’ di cellulite sul culo, non puoi usare Photoshop che costa migliaia di Euro e che solo le Vip possono permettersi).

È pericoloso essere se stessi, e là fuori c’è che chi ci vende una perfezione che nella realtà non esiste.

Se non altro una cosa positiva in tutta questa vicenda c’è: Em è stata contattata dal canale You Tube, che le ha chiesto di mostrare la sua arte di trasformare un volto sfigurato come il suo in quello di una ragazza bellissima, riscuotendo maggiore visibilità e aiutando le donne come lei (e come tutte noi) a superare quel muro di insicurezza dettato da un aspetto che non rispecchierebbe certi canoni.

In qualche modo è stata ripagata dei suoi sforzi, e chi ha tentato di affossarla le ha giovato.

Come dice il famoso detto: “Bene o male che se ne parli, l’importante è che se ne parli!”.

A presto,

Letizia T.

Photo and video: Em Ford

“Le donne con le palle” – Anna Wintour e le donne come lei…

wintour

È la stronza per eccellenza, quel tipo di capo che tutte vorremmo schivare nella vita e alla quale auguriamo anche la morte, se possibile.

Quell’amica che non vorremmo mai portare fuori per una serata perché troppo puntigliosa sui vestiti che metteremmo per quell’evento, troppo criticona, ci squadrerebbe dalla testa ai piedi facendoci sentire sempre fuori posto.

Perché lei di moda ne capisce… e anche tanto.

La signora in questione è Anna Wintour, direttrice di Vogue, la rivista di moda per eccellenza, dal lontano 1988. Un posto che ha ricoperto grazie alle sue doti di determinata imprenditrice.

Deve essere stato traumatizzante molti anni orsono per l’allora direttrice di Vogue, trovarsi di fronte al colloquio con una giovane Wintour, che alla sua domanda: “Che ruolo vorrebbe rivestire nella nostra azienda?”, si è sentita rispondere: “Il suo!”.

Fa tremare le gambe questa risposta; poche sarebbero in grado di avere le idee tanto chiare.

Poche ma non Anna, maniaca del controllo, metodica all’inverosimile, riservata nel privato al punto che poche sono le informazioni che trapelano persino dalla rete su di lei.

Si sa poco di lei, se non delle sue controversie di cui si parla spesso avute con i suoi ex collaboratori tra cui una segretaria che ci ha fatto pure un libro sulla sua capa stronza, da cui è poi nato il film “The devil wears Prada”, meglio conosciuto in Italia come “Il diavolo veste Prada”, velatamente (neppure tanto) ispirato alla temuta figura della direttrice di una delle più autorevoli, se non la più autorevole, rivista di moda di tutti i tempi.

Tutti parlano di lei come una donna ossessionata dall’aspetto: dalla selezione di eventi a cui presenziare, al peso delle modelle e delle star che appaiono sulla copertina della rivista, come nel caso di Oprah Winfrey, che parrebbe essere stata “invitata” dalla Wintour a dimagrire di 20 kg pur di apparire nel servizio di Vogue.

La perfezione assoluta, ecco cosa esige Anna, ed io penso nel mio intimo che non è poi così sbagliato essere devoti al proprio mestiere al punto da farlo diventare la nostra ragione di vita, purché esso punti al raggiungimento del nostro miglioramento senza necessariamente toglierci il fiato, rischiando di compromettere anche il nostro privato.

Credo che tutte le donne corazzate come Anna abbiano combattuto in quanto tali per affermarsi, rischiando di essere surclassate da giovani pretendenti del loro ruolo senza alcuna capacità, né amore, per quello che facevano, lottando quotidianamente per rimanere sulla cresta dell’onda munendosi di una tavola da surf gigante.

Per essere una madre retta, una moglie convincente, una direttrice credibile, soprattutto per una massa che punta solo all’apparenza.

Apparenza che Anna, nonostante la sua età, sembra portare con l’assoluta fierezza di una ragazzina, elegantissima sui red carpet delle maggiori sfilate dei migliori stilisti nel mondo e sempre in prima fila, con il posto riservato accanto alla sua amica Franca Sozzani, la direttrice di Vogue Italia.

Nonostante molti la detestino, è indiscussa regina di stile, imitata da molti, fonte di ispirazione per cartoni animati e film, come nel caso del sopraccitato “Diavolo veste Prada”.

Tutte lottano per non essere donne come Anna, eppure tutte in fondo vorrebbero essere come lei o piacerle, come accade alla protagonista del film, Andrea, che ci tiene tanto a far vedere che si prende sul serio, senza sapere che ogni singola sua decisione non è poi così distante da quel mondo dorato che ella stessa vuole (inizialmente) respingere.

Perché tutte vorremmo occupare quel posto in cima, tutte vorremmo avere un reddito da 2 milioni di Euro annui, non tanto perché sia bello, ma solo per vedere riconosciuto il nostro diritto a guadagnare come un uomo, a sedere accanto a persone dal potere immenso, perché ce lo siamo meritate, nessuno ce lo ha regalato.

Tutte vogliamo poter dichiarare: “Ce lo siamo sudate”.

Madre di due figli e desiderosa che la figlia crescesse nella moda, quest’ultima preferirà seguire un altro percorso, quello degli studi in legge.

Intanto Anna, pragmatica e metodica, ogni mattina si alza sempre alla stessa ora per compiere sempre gli stessi rituali, che la rendono sicura.

Quei rituali che l’hanno resa la donna più criticata e quanto mai famosa al mondo.

Chissà se sia contenta di tutto quello che è stato il suo percorso, se qualcosa poteva essere modificato, se poteva anche accettare l’idea di essere una normale donna sposata con due figli, senza ingurgitare la travagliata esperienza di un mondo a volte effimero e deludente basato meramente sull’estetica.

Chissà cosa pensa la mattina quando si guarda allo specchio e consuma la sua colazione preferita, quella di Starbucks.

In fondo la sicurezza cos’è? La disperata ricerca di una routine che rischia di diventare stagnante, o un interminabile viaggio di emozioni alla ricerca della perfezione?

“La bellezza non può essere interrogata, regna per diritto divino” – diceva Oscar Wilde.

Credo che sia questa la vita che voleva, è questa la sua felicità, quella di una “donna con le palle”.

Letizia Turrà

Photo: Anna Wintour in her office

MI AMERO’ LO STESSO! – Paola Turci e le sue cicatrici

Il libro 'Mi amero' lo stesso', l'autobiografia di Paola Turci, in una foto diffusa il 1 ottobre 2014. ANSA/ ++HO -NO SALES EDITORIAL USE ONLY - NO ARCHIVE++
Il libro ‘Mi amero’ lo stesso’, l’autobiografia di Paola Turci, in una foto diffusa il 1 ottobre 2014.

Conobbi Paola Turci che ero giovanissima. Credo fosse il 2000, lavoravo in uno studio di post produzione musicale in Via Palermo a Milano.

Rimasi subito colpita la prima volta che vidi un personaggio che prima avevo sempre visto in tv, in carne e ossa davanti a me… e che personaggio poi!

Paola possedeva quel piglio fiero, da combattente, un modo quasi duro di porsi con chi entrava per la prima volta a contatto con lei.

I capelli lunghi e castani le coprivano il volto solo su un lato, che manteneva celato, per una specifica ragione.

Al di là di quegli spigoli, la sua voce calda e suadente si apprestava a donare emozioni.

Fu un bel momento che ricorderò sempre con nostalgia.

Una vita da combattente la sua, persino quando un incidente nell’agosto del 1993 le costa quasi la vita sulla Salerno-Reggio Calabria, da cui esce con il volto sfregiato, cento punti di sutura e un occhio salvo per miracolo.

Paola combatte per riprendersi ciò che le è stato tolto, perché conta di più la sua dignità, la sua arte, quella che vuole mettere al servizio del pubblico che la ascolta e per il quale sente di essere nata.

Canta dolcemente e grintosamente, Paola. Canta alla vita, con il volto sempre seminascosto dai capelli.

Non è semplice accettare quelle cicatrici, non è semplice non vedere il solco che si crea nell’anima. E’ una ferita troppo grave per una donna.

Non resta che decidere a quel punto cosa nella tua vita conti di più: se ciò che pensano gli altri di te, o cosa davvero tu pensi di te.

Ripartendo da se stessa con un coraggio da leone, riprende a fare la sua musica, con la sua voce graffiante e un rock delicato, che regala straordinarie emozioni a chi le sa apprezzare.

Perché è così che le cose vanno, sono poche le persone che sanno ammirare alcune sonorità, perché talvolta è difficile, se non impossibile, comprendere che proprio dietro  vi sia un vissuto chiaro e un destino preciso, come quello che è toccato a Paola.

Lei ha recuperato non solo la sua musica, ma anche la voglia di vivere e di amarsi ogni giorno lottando contro quell’evidente difetto fisico, che molte altre donne non avrebbero accettato, ma del quale Paola ha fatto un punto di forza e ripartenza, perché la vita non finisce, se non quando siamo noi a deciderlo.

E’ notizia di queste ultime settimane che abbia deciso di far conoscere la sua storia in un libro dal titolo determinante “Mi amerò lo stesso”, edito da Mondadori.

Un libro che parla di come le cicatrici ti lacerano cuore e anima, e possano creare un muro di diffidenza e sfiducia nei confronti della vita che sembra tanto amara.

Quelle cicatrici che comunque le hanno consentito di essere la donna che è oggi.

Il mio augurio, per tutte quelle persone che soffrono a causa di un dolore fisico e interiore, è quello che ogni donna impari ad amare le proprie cicatrici, perché l’estetica non rappresenta ciò che siamo in essenza e verità.

Conta quello che ogni giorno scegliamo di desiderare, fuori dai falsi dogmi dell’aspetto.

Contano cuore e pelle, che sanno comunicare come nessun altro.

Auguri Paola per il tuo percorso, che sia sempre luminoso come quel tuo piglio coraggioso con l’augurio che un giorno le nostre strade possano incrociarsi nuovamente!

A presto,

Letizia T.

Storie di Bullismo – perché è tanto importante amarsi…

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Accade un giorno, in un preciso momento: quel brano musicale che sentivi da tempo, improvvisamente ti appare come nuovo.

Al primo raggio di sole che ti perfora l’iride con la sua violenza, senti uno specifico strumento; solo poco dopo ti rendi conto che quel suono c’è sempre stato. Ed è sempre stato lì, alla portata del tuo orecchio.

Eppure, tu te ne sei accorto solo in un dato momento, quando il tuo orecchio si è rivelato pronto a recepirlo; non è qualcosa che hai chiesto, e non c’è nulla che tu possa fare; quel suono che prima non esisteva, è giunto in un istante preciso senza che fossi tu a stabilirlo, e senza che tu fossi adeguatamente pronto a comprenderne il valore.

Così come quel suono, anche l’amore per te stesso… anche quello arriva in un giorno ben preciso.

Perché amarsi è così importante? Questa è la domanda più grande fra tutte.

Mi ricordo che da bambina non avevo stima nelle mie capacità, ero un ragnetto magro e pieno di capelli scuri, rigorosamente tenuti corti da mia madre per paura dei pidocchi a scuola.

L’unica mia peculiarità era quella di essere alta, al di sopra della media dei bambini della mia età.

Questo non mi evitò certo di prenderle da quelli che erano più piccoli di statura rispetto a me.

Mia madre era morta da qualche mese quando fuori da scuola iniziarono a prendermi di punta, e conseguentemente a prendermi a botte. Sapevo di essere sola, lei non c’era più e nessun altro poteva difendermi. Mi vergognavo persino di parlarne a casa, perché temevo che mi avrebbero detto che ero incapace di difendermi. Tutto ciò mi avrebbe resa ancora più fragile.

Per anni ho subito ciò che una volta era consuetudine tra i ragazzi, e che oggi invece ha preso il nome di “bullismo”, la forma più meschina dell’essere umano che non sa comunicare con le parole il suo dissenso verso il prossimo, o verso una vita che non accetta che gli crea uno stato di disagio.

La causa derivava prevalentemente dall’interno del nucleo famigliare dove si vivevano situazioni più o meno conflittuali. Sostengo questo perché sono certa del fatto che i ragazzi sereni non si ponevano violentemente nei confronti dei più deboli perché erano stati educati all’empatia che prevedeva un reciproco sostegno con quei loro compagni considerati emarginati.

Cominciai ad unirmi alle persone “deboli” come me, comprendendo di avere molta più forza di quella che credevo di possedere; riuscii così nell’intento di dare un messaggio a quelli disagiati e violenti (i veri deboli), portandoli sul binario opposto rispetto a quello da loro intrapreso e ritenuto corretto.

Ero talmente abituata a non amarmi, da aver smesso di occuparmi di me: non mi lavavo, non mi curavo, non avevo più rapporti sinceri con nessuno, ero ingrassata fino a pesare 90 kg a dodici anni, e me ne stavo rinchiusa nel mio mondo, un rifugio nel quale mi sentivo sicura perché non mi sentivo compresa dagli altri.

Ricordo solo che restavo pietrificata di fronte a tanta violenza espressa da un mio coetaneo, fisica o verbale che fosse.

Poi finalmente cambiò la mia visione delle cose, mi ribellai cominciando ad evitare coloro che avevano cercato di sopprimere quella parte di me con violenza e improvvisamente, quello che prima era per me un muro insormontabile, divenne un lenzuolo leggero.

Più semplicemente, non mi occupai più di chi mi procurava del male, ma solo di ciò che mi faceva stare bene perseguendo un obiettivo, come quello della musica, che coltivavo dalla tenera età.

Al contrario di quel ristretto gruppo che li trovava vincenti e simpatici, io vedevo finalmente quei ragazzi per ciò che erano: pieni di enormi debolezze.

Proprio come lo strumento che senti chiaro, nitido, vidi lo spiraglio della mia luce interiore e compresi che sì, potevo davvero cambiare le cose, e dovevo farlo partendo da me stessa, compiendo determinate azioni.

Nessun altro poteva aiutarmi, nessun altro che non fossi io poteva amarmi, sostenermi, insegnarmi a crescere.

Da qui l’importanza del mio messaggio che oggi voglio sia rivolto a voi.

Nell’epoca di internet, il fenomeno del “bullismo” è sempre più dilagante con riprese video di soprusi a danno di giovani e minori, che non fanno che rendere ancora più gravoso e denigratorio lo scherno per la vittima, scatenando altro odio in chi assiste inerme davanti allo schermo a tale inspiegabile violenza.

Vorrei tanto che ciascuno di voi imparasse ad amarsi, perché senza la consapevolezza delle vostre capacità non progredirete, né sarete in grado di aiutare gli altri a farlo, e non sarete in grado di gioire per quanto possedete già.

Vedo moltissimi essere invidiosi per i beni degli altri, senza considerare che si tratta solo di cose materiali, mentre i beni più importanti sui quali dovremmo soffermarci sono proprio quelli dell’anima, fatti di persone, di ricordi, di sensazioni che non ritornano, di mani che si toccano e di cuori che si parlano.

Provate a pensare a un dono che possedete, qualcosa di soltanto vostro che realmente potrà aiutare gli altri.

Ad esempio, io aiuto spesso gli altri con le mie parole, le persone si rivedono in quanto scrivo, ecco perché mi sento spinta a proseguire nei miei obiettivi e vivo con un determinato scopo.

Vi sono anche casi in cui quello che ho scritto non è piaciuto a molti ma non importa, non l’ho vissuta come una sconfitta, bensì come motivo di crescita interiore, considerando che il livello di comprensione di uno scritto varia in base allo stato d’animo del lettore in quel determinato momento/periodo.

Così mi sono amata proprio con i miei difetti, mi sono amata nonostante qualcuno non abbia condiviso ciò che il mio cuore ha esternato.

Mi sono detta: “Se l’ho fatto con il cuore, tutto il resto non conta”.

Mi guardo allo specchio oggi e vedo una donna forte, mi sento anche a tratti bella, mi stimo per ciò che ho fatto finora, e per aver affrontato a testa alta il dolore di essere emarginata dagli altri a scuola e bistrattata con violenza persino da persone che ritenevo importanti per me.

So che la lezione non è terminata quel giorno alle scuole medie; so che continua ancora oggi, ed ogni giorno devo essere più forte di chi cerca di togliermi il valore che merito.

A differenza di chi compie certi gesti, io sono cresciuta e sono andata avanti, con amore e credendo in me stessa, senza dare la responsabilità agli altri per i miei fallimenti.

Nessuno sarà mai così importante per la vostra autostima, quanto voi stessi.

E voi siete troppo importanti per buttare via la vostra vita dietro a una violenza verbale o a una violenza indotta sugli altri.

Mi viene in mente quanto diceva Goethe: “Chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza”.

A presto,

Letizia Turrà

Image: Google – Bullismo

Dedicato ai 50 anni di mia madre che mai compirà.

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I long for peace before I die All I want to know that you’re there You’re gonna give me all your sweet … Mother love

Nell’epoca in cui le donne hanno il terrore di invecchiare sorrido pensando a quelle donne come mia madre, che oggi avrebbe compiuto 50 anni, e che tale privilegio non lo ha avuto.

Mi chiedo sempre come sarebbe stata oggi, è venuta a mancare che io ero bambina, avevo 5 anni quando scoprì di essere malata e dieci quando morì. Tutto avvenne in tempo record: le cure mediche inefficaci, i farmaci, gli odori dei reparti ospedalieri che perforano le narici e che mai dimenticherò. No, ormai sono cosciente che certe cose non le dimentichi neppure se sei la creatura più forte su questa terra.

Sono trascorsi molto velocemente 24 anni dalla sua scomparsa, ma la sua bellezza e spensieratezza aleggia ancora nell’aria… e in me.

Questa mattina mi sono messa a cercare nel “cassetto dei ricordi” qualcosa che le appartenesse strettamente. Ho trovato il suo block-notes dove lei amava appuntare ogni emozione e poesie (mi spiego da chi ho ereditato la mia vena di “scrittrice”).

Scriveva così il 23 agosto 1981:

Certe volte basta poco per credere che la vita sia meravigliosa.

Certe volte basta un niente per far crollare tutto.

Ho visto un passero cantare felice,

una felicità in gabbia.

Ho visto un bimbo piangere chiamando la sua mamma.

Due ragazzi baciarsi, convinti di amarsi davvero.

Guardo il cielo riempirsi di stelle,

un giorno sta per finire,

un giorno come gli altri,

uno in più nella mia vita”…

Un giorno in più nella sua vita, un giorno da apprezzare, da usare per ricercare l’amore che si desidera, che lei stessa ricercava in ogni persona di cui si fidava e che poi, puntualmente, tradiva quella fiducia.

Forse era a un passo da quella tanto bramata felicità quando scrisse una lettera prima di morire, a Maurizio Costanzo.

Voleva parlargli di quella malattia che la affliggeva; in quelle poche righe descriveva la sua famiglia numerosa composta da 3 fratelli e una sorella oltre a lei, e diceva:

In tutte queste mie notti ho pensato e penso come, con quali parole scriverle la mia angoscia, i miei tormenti, come iniziare questa lettera perché ho paura, paura di non essere capita…”.

Prosegue poi: “C’è un altro perché nella mia lettera, perché io sto per morire e vorrei lasciare il mio testamento e non ho nessuno a cui lasciarlo e non ho una lira per andare dal notaio, di Lei mi fido e so anche che se dovessi morire fra 10 anni Lei farà in modo che venga rispettato”.

Costanzo non ricevette mai la sua lettera, come un fulmine che squarciava il cielo venne il giorno in cui i suoi occhi si spensero a causa di una malattia terribile a soli 27 anni, strappandola alla vita che tanto amava.

È difficilissimo accettare la morte di qualcuno così ancorato alla vita come lo era mia madre, quando vi sono persone che la buttano via.

Non ci sarà mai nessuno in grado di colmare quella mancanza, nessuno sarà mai come mia madre.

Era lei la bambina che piangeva chiamando la mamma, era lei quel passero in gabbia che cinguetta verso una felicità inarrivabile.

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Sono certa che ora, dovunque ella si trovi, guardi ancora al mondo con quel suo sorriso destinato a non essere cancellato perché vive nei ricordi di quanti davvero l’hanno amata, come ME.

Love u always, Letizia Mattia

Photo: My Mother

Freddie Mercury and Mary Austin – A love against time, “un amore fuori dal tempo”.

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Farrokh Bulsara.

Questo nome probabilmente non ricorderà niente a nessuno o pochi lo ricorderanno ma Farrokh, in arte Freddie Mercury, segnerà un’epoca, quella musicale, insieme alla sua Band come leader dei “Queen”.

L’indimenticato cantante è stato senza dubbio uno dei più amati fautori del Rock melodico, sottoposto per suo preciso volere ad uno stravolgimento che lo ha reso poetico, nostalgico, melanconico e molto spesso vicino all’opera lirica.

Quelle di Freddie sono note che hanno molto a che fare con la sua vita che ha posto sempre davanti ai Media, sempre sotto la luce dei riflettori. Perché a lui piaceva “fare tutto con tutti”, senza preclusioni.

Nasce a Zanzibar il 5 settembre del 1946 da una famiglia di origini parsi e indiane, trasferitasi dapprima in Africa e successivamente, quando Farrokh ha 8 anni, nello stato Britannico del Middlesex.

Il ragazzino ha grinta, mostra un’attitudine oltre misura per la musica, trasferendo quegli ottimi risultati anche nel disegno e nello sport.

Era “diverso” Freddie (è con questo nome che iniziano a chiamarlo a Londra). Diverso per mille, milioni di motivi.

Era un artista a tutto tondo, scriveva brevi articoli per i giornali locali, creò anche una linea di abbigliamento.

Un portento in ogni campo!

Ci prova a seguire le leggi imposte dalla natura, quelle che vedono un uomo e una donna unirsi, convivendo per ben 7 anni con Mary Austin, conosciuta nel 1970. È Brian May che li fa incontrare, e da quel momento i due diventano inseparabili.

Lui e Mary sono compatibili, in tutto. Nonostante ciò, in Freddie cresce sempre più la consapevolezza che il suo orientamento sessuale sia un altro, fino al punto che in un’intervista a un giornale Americano nel 1974 egli si definirà: “gay come una giunchiglia!”.

Comincia a dare spettacolo di sé, diventa amante di molti uomini, pratica sesso ovunque si trovi senza alcuna precauzione. Lo fa senza pensare alle conseguenze, forse spinto dalla superficialità di quel suo essere un artista libero.

Narciso come una giunchiglia, Freddie esprime col canto e con il piano quello che realmente sente, e il pubblico non può fare a meno di apprezzare quanto egli ha da offrirgli.

Compone la sua prima opera più importante con i Queen, il singolo “Bohemian Rhapsody”, che resterà un indiscusso capolavoro e per il quale ci vorranno tre settimane di registrazione data la sua complessità. Ma Freddie sa bene che ogni opera merita il suo tempo e che l’attesa viene sempre premiata.

Mary lo segue sempre, anche se in sordina; verrà messa da parte a causa delle scelte sessuali di Farrokh, ma saprà sempre restargli accanto anche nell’ombra, soprattutto quando Freddie diventa una leggenda durante il Live Aid del 1985, data in cui si esibisce davanti a 72.000 spettatori nel Wembley Stadium.

Neppure due anni dopo, i medici gli comunicheranno di essere stato contagiato dal Virus dell’HIV. Successivamente gli viene diagnosticata la sindrome dell’Aids.

Freddie continua a negare di essere risultato positivo al test, sembra non voler accettare quella realtà. È un segreto da nascondere, persino alla sua band con la quale ha condiviso i momenti più importanti della sua vita.

Nessuno deve sapere, glielo nasconderà fino al 1989.

Sorride e canta, suona e prosegue col suo andamento.

Canta forte e deciso “Show must go on”, “Lo spettacolo deve continuare”. Non può credere che il palco della sua vita si possa interrompere.

Molti dei suoi amanti confessano della sua malattia ai tabloid, sparlano delle sue abitudini segrete, quelle che lui condivideva solo nell’intimità; molti scavano in profondità quasi a volerlo denigrare distruggendo definitivamente la sua immagine.

La realtà è che ogni compagno che Freddie avrà al suo fianco, non sarà mai come Mary e questo fa rabbia ai suoi amanti.

Chi è Mary Austin, l'eterno amore di Freddie Mercury? - Stampa libera

Lei resta al suo fianco comunque, fino alla fine. Perché “Nessuna è come Mary”- dirà sempre Freddie ai suoi compagni di letto.

Si fanno sempre più rare le sue apparizioni. A chi gli chiede perché, Freddie risponde seccamente che: “un quarantenne non può continuare a esibirsi sui palchi in calzamaglia”.

Quel look, che era stato simbolo di un movimento e di una generazione, quella Rock, veniva di colpo gettato nel “cestone dei ricordi”, nell’armadio dei rifiuti, come se quella persona non fosse più la stessa di un tempo.

Si rifugia nella sua casa inglese nella Garden Lodge, poi in Svizzera, dove affitta un appartamento.

Continua a cantare, quasi irriconoscibile, debole, gracile e ridotto ad essere un osso. Le lesioni sul volto e sul corpo si faranno sempre più evidenti.

“Mother Love” – l’ultimo struggente brano che incide.

Chiunque conosca quel brano non può fare a meno di ricordare come si conclude: con il pianto di un bambino. Viene da pensare immediatamente che quel bambino possa essere Freddie, che ritorna tra le braccia di colei che lo ha procreato.

Quel brano non lo concluderà come si era ripromesso di fare, perché i medici lo costringono ad interrompere le registrazioni a causa dei problemi polmonari.

Nel novembre del 1991 Freddie rientra a Londra per stare con i suoi cari.

Tra questi c’è Mary sempre lì ad attenderlo, ancora pronta ad amarlo e ad assisterlo nei suoi ultimi giorni. Racconterà spesso di come lo osservasse anche mentre dormiva, a volte per ore, rapita da quel candore.

Nessuno potrà mai comprendere quanto grande sia stato il loro amore, che ha spinto Mary a rimanere fino alla fine al fianco di un uomo che era divenuto ormai parte di un passato.

La fine di un amore profondo che giunge sui giornali di tutto il mondo, il 24 novembre 1991, quando a soli 45 anni la star Freddie Mercury abbandona questa terra.

Sarà cremato secondo le sue volontà e le credenze religiose della famiglia, le ceneri saranno affidate a Mary che le spargerà nel luogo che Freddie le ha indicato, non definito e tenuto segreto, solo ipotizzato dai Media.

Segreto come la ragione del loro amore, durato oltre 20 anni.

Nessuno era come Mary per Freddie, che gli lascia l’esatta metà del suo patrimonio (circa 35 milioni di sterline) e la casa nella Garden Lodge.

È rimasta sola Mary, senza il suo Freddie. Ma lo spettacolo deve continuare.

Lui stesso non avrebbe voluto si interrompesse, MAI.

Da quel momento Freddie Mercury diventa un’icona, una leggenda che supera anche la morte.

Il mondo intero compiange l’artista scomparso che abbandona questa terra.

Solo il ricordo permane e si ode come fosse un canto in lontananza, un eco nel vento che non viene dissipato, neppure dal trapasso.

A presto,

Letizia Turrà

Photo: Mary and Freddie (Google)

Le qualità individuali di ciascuno di voi!

bimba bella

E’ da diverso tempo che ormai sto lavorando a questo scritto, lo sto facendo con enorme passione, scrivo nei bar, scrivo nelle stazioni  in attesa del treno che rappresenta la mia vita da pendolare, scrivo a tarda sera, penso a cosa scrivere anche durante la notte e mi sveglio stravolta ed emozionata al pensiero di trovarmi nel prossimo luogo dove aprirò il mio piccolo pc e continuerò a scrivere, incurante di tutti quelli che mi guardano mentre con aria soddisfatta scrivo quello che un giorno potrà rimanere un bel ricordo per me, e per qualcun altro chissà, magari un sostegno nei momenti difficili.

Credo che il segreto delle migliori iniziative risieda nell’accingersi a svolgerle con il massimo della passione, questo vale per tutto ciò che facciamo.

Essendo una persona passionale, ho sempre affrontato i problemi, le paure, le felicità così come si conviene a qualcuno con questo tipo di temperamento. Ho sempre amato con la stessa passionalità, sto comunicando con voi con la stessa passionalità.

Sappiate che ognuno di VOI ha un Dono meraviglioso dentro di sé, deve solo imparare a tirarlo fuori, trovare le persone che gli diano questa possibilità e, cosa non irrilevante, trovare le giuste opportunità per esporre il proprio Dono, sfruttandolo affinchè si possa dare non solo serenità a noi stessi, ma anche agli altri.

Ad ogni sorso di cappuccino che sto trangugiando questa mattina, mi viene da ridere nel pensare a quale grande risorsa rappresenti l’umanità senza neppure saperlo! Voi siete speciali, e non lo dico tanto per dire, il fatto che nella vostra vita non vi sentiate realizzati momentaneamente oppure che vi siate accontentati di vivere una vita che non sentite nella vostra pelle, non significa che non possiate realizzare niente di più di ciò che siete finora riusciti a concretizzare.

Magari già con il vostro lavoro quotidiano avete aiutato qualcuno senza neppure saperlo, vedo tutti i giorni nei vostri occhi quella luce e quella ricerca di essa che arriva dritta in fondo ai vostri desideri, alla realizzazione di un grande progetto o anche solo semplicemente alla ristrutturazione della vostra futura casa….

Quali che siano le vostre prerogative di vita o le vostre aspettative, ricordatevi che siete molto speciali, che c’è sempre almeno una persona nella vostra vita che vi ama al punto da morire per voi e che sta male in vostra assenza, che c’è sì, qualcuno che vi odia, ma al tempo stesso qualcun altro vi amerà.

Che avrete il cuore svuotato, ma arriverà anche un nuovo amore a riempirlo, che vi consentirà di oltrepassare ogni limite, quel limite che solo la vostra mente vi impone ma che potete superare senza più barriere ad impedirvi di sognare.

Non permettete mai a nessuno di dirvi che “quella cosa” non la potete fare, e soprattutto non permettete a nessuno di vivere la vostra vita al vostro posto!

Da “Manuale della mamma fai da te” di Letizia Turrà -Narcissuss Edizioni

OFF-LINE! USCIRE DALLA RETE SI PUO’!

offline-facebook

Se i Media avessero dovuto escogitare un programma illecito mascherandolo per scopi benefici con il mero interesse di “vigilare” sulla popolazione e sui loro stati d’animo, i Social Network sarebbero stati un’arma perfetta per tale scopo.

E ce l’hanno fatta.

Sono riusciti a rendere dipendenti come da una droga le persone dai Social Network.

E’ possibile uscirne? La risposta è: assolutamente SI!

Come per tutte le dipendenze, quella dalla rete si instilla piano piano nelle persone, dapprima come un gioco, poi diventa qualcosa del quale non possiamo fare a meno e del quale non riconosciamo subito i segnali della dipendenza, perchè rifiutiamo l’idea che ne siamo divenuti parte integrante.

Ho visto persone capaci di rifiutare anche solo una telefonata sul proprio cellulare perché odiavano le nuove tecnologie, passare ore sui Social Network, perché la Rete ti da questa illusione: ti senti sicuro aldilà dello schermo, sei libero di usare anche dati non reali e nomi fittizi, sei libero di offendere che tanto non ti viene a reperire nessuno, sei libero di fingerti qualcun altro imbrogliando persone deboli e rischiando di far saltare famiglie perché tanto sei coperto dalla rete.

Ti ritrovi risucchiato in quello scorrere del pollice, su e giù, su e giù, a guardare le foto delle vacanze al mare, dei panorami più belli, delle feste più esclusive, degli amici più cari…mai vissuti davvero, nè da te, nè da chi le ha postate.

Perché è questo il danno, noi postiamo in continuazione foto di eventi per i quali è prevista la nostra partecipazione fisica, ma non emotiva.  Sì, perché quel momento, quel presente, non lo stiamo vivendo, lo stiamo condividendo con altri ai quali magari neppure importa, e non ne godiamo noi per primi, perché i minuti che abbiamo impiegato per postare la foto con gli occhi fissi sul monitor del cellulare, sono quella preziosa occasione persa per guardare dritti negli occhi le persone che ci stanno regalando il loro tempo per stare con noi.

Noi invece siamo presi al cellulare, a vivere qualcosa che non c’è, a condividere con gli amici di Facebook o di Twitter le cose belle della nostra vita, o, nel peggiore dei casi, le cose che noi vogliamo che appaiano belle agli occhi degli altri perché la nostra vita a noi, così com’è, non piace.

Ed ecco che molti si accaniscono poi contro un post che non gradiscono, la bacheca si trasforma nel luogo atto alla lamentela, mentre non comprendiamo che non è su un Social che servirà lamentarsi, ma solo parlando apertamente in faccia alle persone, guardandole negli occhi potrete comunicare ciò che provate. E non servirà neppure urlare in faccia al Sistema che voi siete diversi, perchè se davvero lo siete è nella vostra quotidianità che dovete dimostrarlo!

Perché certi momenti, per quanto penserete siano eterni, non faranno ritorno…

NO, NON tornerà il sorriso del vostro amico, NON tornerà vostro figlio piccolo ad abbracciarvi, NON tornerete VOI, la cosa che dovreste amare di più, la VOSTRA LIBERTA’.

Non trinceratevi dietro un mezzo a circuito chiuso, ma USCITE DALLA RETE!

Questo sembra aver pensato una ragazza che molto presto si appresterà a condurre un programma televisivo basato sulla sua dipendenza dai Social che l’ha spinta alla seria consapevolezza che quelli che aveva erano solo gli amici della rete. Lei non conosceva quelle persone, non sapeva come fossero nella realtà “Gli amici di Facebook” e quindi decide di intraprendere un viaggio per andare a conoscerli, tutti, uno per uno nelle varie destinazioni.

Non dico che bisogna fare come questa ragazza, sarebbe impossibile e dispendioso a dir poco, ma considerate bene un aspetto della rete: essa è in grado di tirare fuori molte delle nostre fragilità, motivo per cui vi invito a restare sempre “vigili” (ma solo per la vostra sicurezza) e a considerare di vivere al di fuori della rete, senza illusioni e senza pensare che sensazioni effimere, per quanto vi regalino l’ebbrezza di qualcosa di differente, possano durare per sempre.

La rete dona leggerezza, ma anche molta sofferenza se alcune persone approfittassero proprio di tale fragilità.

Io stessa ne sono stata dipendente e ne sono uscita, ho iniziato a guardare la mia famiglia dritta negli occhi, a desiderare di trovarmi solo lì, a vivere quel momento irripetibile, e a non crucciarmi per il fatto che non posso più fare le foto di ogni istante trascorso con loro, perché è talmente prezioso che le mani le ho utilizzate per stringere forte a me coloro che amo, senza il bisogno di fotografare l’attimo, se non nella mia mente.

Ricordate bene: I MOMENTI MIGLIORI NON HANNO FOTOGRAFIE.

Mi viene in mente quanto diceva Seneca:

“E’ che vivete come se doveste vivere per sempre, non vi ricordate della vostra precarietà; non osservate quanto tempo è già trascorso, lo sciupate come se ne aveste in abbondanza, mentre invece proprio quella giornata che state dedicando a qualcuno o a un affare qualsiasi, potrebbe essere l’ultima. Temete tutto come mortali, ma desiderate tutto come immortali.”

A presto,

Letizia T.

Storie di un’americana a Roma – Nuova vita in Italia, 1938

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Il bagno aveva rubinetterie dorate e raffinate e tappetini rosa, abbinati rispettivamente per il copri wc e  per i piedi.

<<Vieni, ti do una mano a svestirti così potrò mettere questo cencio a lavare, è pur sempre bellissimo ma va pulito se vorrai riportarlo a nuova vita.>>

Anche se la cosa mi imbarazzava un tantino, gli permisi di aiutarmi.

Iniziò con lo slacciare la camicetta e successivamente passò alla gonna, poi fu il momento delle calze e delle scarpe.

Mi sentivo confusa, avvertii una sensazione forte mentre mi spogliava, sentivo una forte attrazione dettata sicuramente da qualcosa di più.

<<Ok grazie,  ora posso fare da me.>> dissi paonazza in volto.

Si fermò a osservarmi: <<Non vuoi darmi anche il reggiseno?>>

<<No no grazie, ti porto io il resto, preferisco fare da me!>> e mi voltai dandogli le spalle.

<<Come vuoi, sorellina!>>

<<Aspetta Riky…>>

Si voltò e spalancò gli occhi quando tentai di strappargli la giacca dalle mani.

<<Devo recuperare il mio ciondolo, non vorrei perderlo.>>

Lasciò la stanza.

Riposi il ciondolo sulla lavatrice, un elettrodomestico che non vedevo da anni.

Entrai in vasca, immergendovi la testa completamente; rimasi sott’acqua quasi fino a quando non fui privata del respiro, arrivando al limite del soffocamento.

Guardai le mie mani. Non erano più nere, avevano ripreso il loro colore naturale.

Dopo tutte le riflessioni, riemersi con l’intero corpo dalla vasca, come una persona praticamente nuova, mi vestii e sedetti al tavolo per mangiare qualcosa.

Mi rassicurò il pensiero che non mi sarei più dovuta alzare alle quattro per andare a prendere il pane, come facevo ogni mattina.

Nessuno dei figli in casa parlava la mia lingua, Luigia fu l’unica che si adattò a farlo, per via del suo lavoro di attrice.

Questa cosa non mi fece sentire a disagio, solo ero un tantino confusa per le novità che via via si succedevano.

Luigia era una donna prorompente e bella, possedeva tutte le qualità che un uomo desidererebbe in una donna. Tranne una: non era in grado di cucinare neppure un uovo.

Erano le sette del pomeriggio ma ancora nessuno dei suoi figli era rientrato.

Pensai al fatto che mio padre avesse preferito abbandonare me e mia madre in America, proprio nel momento in cui avremmo avuto più bisogno di lui, per crearsi una famiglia parallela in Italia.

Era tutto così nuovo per me e le emozioni erano state davvero così tante, che stentai a credere che in così pochi anni un essere umano potesse riformare la propria vita, quasi come se avesse subito una sorta di reincarnazione, una seconda opportunità che lo aveva portato a rivalutare la vita precedente, al punto da accettare quella nuova come l’unica plausibile.

Gli amici di mio fratello erano i classici figli di papà della Roma bene, tutti ricchi e ben vestiti, con poco rispetto per la vita e per il prossimo.

Non avevano certo sofferto la fame come era successo a me e i loro genitori forse non avevano mai avuto paura di perdere il lavoro, come era invece successo a mia madre.

Mi sentivo una specie di aliena tra loro, soprattutto perché non parlavano la mia lingua, al contrario di mio fratello Riky, che fluentemente parlava inglese e italiano, e per me fu sbalorditivo.

Si stava così bene in fondo in quella casa che non potevi fare a meno di desiderare che fosse sempre stata quella la tua vita.

A scuola venivo da molti etichettata come “l’Americana”, soprattutto dai ragazzi del corso di chimica, alcuni tra loro mi prendevano di mira e mi schernivano. Uno in particolare era molto insistente. Si chiamava Giampiero.

Era figlio di un regista che in Italia era noto per aver fatto un solo film ma che aveva avuto un grande richiamo da parte del pubblico.

Tutto quel clamore per una sola pellicola interpretata da un’attrice carnosa e abbondante che arrivava dal Sud le cui uniche qualità erano quelle di essere bellissima!

Solo in Italia infatti accadeva che vi fosse tanto clamore e tanto festeggiamento nei confronti della mediocrità. Tutto, pur di festeggiare il “niente”.

Letizia T.

Photo: internet

le cabinet d’avocats…

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Silenzi assordanti.

Porte che si aprono e si chiudono da un estremo all’altro del marmo illuminato da raggi di luce perpetuati per un istante, senza che lo sguardo si sollevi mai dalle scarpe eleganti.

Segretarie ripiegate sulle scrivanie, annoiate e stanche. Fuori è caldo e la concentrazione è diminuita.

Da qualche parte è anche possibile intravedere l’obiettivo di una macchina fotografica con la capacità di “bloccare” momenti che diverranno storia.

Poi il fotografo posa la sua macchina, prende il suo caffè, lo stesso da vent’anni, bagnato da una punta di latte intero. Avanza verso la sala mensa con la mano sinistra in tasca, sempre la stessa mano.

Fa da eco l’anima in queste stanze dai soffitti prominenti.

Molte le domande, troppi i perché; ci si sente come alla resa dei conti: troppo vecchi per cambiare, troppo legati a certi ricordi per lasciare.

O forse non si è mai pronti a lasciare. Non lo si è mai neppure di fronte all’obiettivo di una macchina fotografica, capace anch’esso di sorprenderci nel momento inadatto.

Riguardando quelle foto non si vedono più persone, ma famiglie, sogni, obiettivi che si volevano raggiungere.

E ancora sguardi, e silenzi, in quei corridoi, dove il tempo un giorno si fermerà.

Non è che un viaggio quello dello sguardo, destinato a terminare da un estremo all’altro del marmo,  su pavimenti che riflettono scarpe eleganti.

Letizia T.

Photo: Internet

La dieta del gruppo sanguigno – cose che dovete sapere!

Ebbene sì… Vi avevo anticipato che questo sarebbe stato un blog dove avrei messo a nudo le mie emozioni, sensazioni, e passioni che mi porto dietro da sempre!

io e max

Sono un’amante della cucina al punto che ho creato anche il mio canale su you tube dove io e mio marito abbiamo messo insieme la nostra passione per i piatti tipici.

Stiamo anche scrivendo insieme un libro sulla salute perchè è vero ciò che si dice. SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO!

Ne siamo ormai convinti da quando abbiamo severamente cambiato stile alimentare.

Non pensate strano, non siamo diventati Vegani, vegetariani o crudisti. A noi le mode non riguardano, la nostra è stata più una scelta salutistica per prevenire l’insorgenza di alcune problematiche comuni tra le persone: meteorismo, stitichezza, sfoghi cutanei, stanchezza e spossatezza, cefalea, nei casi peggiori patologie tumorali, perchè abbiamo compreso (dopo molto tempo), che era la cattiva digestione a portarci problemi unita ad una cattiva, se non pessima, alimentazione.

Ecco perchè ci siamo rivolti al divulgatore Italiano per eccellenza della dieta del gruppo sanguigno, il dott. Piero  Mozzi che abbiamo anche avuto il piacere di incontrare durante la manifestazione che si tiene ogni anno al Castello di Belgioioso dal 29 Aprile al 3 Maggio 2015 – “Officinalia”.

Il dott. Piero Mozzi è innanzitutto un medico, cosciente che ciò che dice vada al di fuori degli schemi medici “convenzionali”, che prospettano nella stragrande maggioranza dei casi cure farmaceutiche associate a questi disturbi senza prima verificarne la natura.

Hai mal di testa? Prendi questo farmaco. Per Mozzi non funziona così.

La sua teoria nasce da un intuizione geniale di un altro medico, James D’Adamo, che si accorse come alcuni suoi pazienti rispondessero meglio ad una dieta prettamente vegetariana e come altri, al contrario, traessero maggior giovamento da un consumo pressoché quotidiano di carne, in base proprio al loro gruppo sanguigno.

Consiglio vivamente a tutti di fare almeno un tentativo se presentate alcune tra le problematiche elencate, tentate di cambiare la vostra dieta in base al vostro gruppo sanguigno.

Non viene chiesto a nessuno di spendere soldi in farmaci, nè di finanziare imprese colossali come quelle farmaceutiche, nè di fare diete estreme togliendovi chili di cibo e lasciandovi morire di fame!

Andate per tentativi: provate ad eliminare dalla vostra dieta i farinacei (pasta, pane) e latte e derivati del latte (mozzarella, yoghurt, latte vaccino etc..), e provate a vedere i risultati nel giro di un mese.

Se le cose migliorano, meglio per voi, vorrà dire che funziona!

Prima però dovrete conoscere il vostro gruppo ed iniziare ad applicare il regime alimentare a quest’ultimo.

In commercio potrete trovare il libro del dott. Mozzi, si intitola “La dieta del dott. Mozzi”, unitamente agli altri volumi con “Le ricette del dott. Mozzi”.

Vi aspetto intanto sul mio canale you tube: http://www.youtube.com/watch?v=fPhhiw3YD8o troverete anche su questo link il video del pane fatto in casa: http://www.youtube.com/watch?v=gSL74uaxcYw

A presto,

Letizia T.

Riccardo Marchesini: il Vichingo controcorrente!

riccardo marchesini

Lo rivedo ieri sera, dopo quattro mesi dall’ultima volta che ci eravamo incontrati, e mentre parliamo non posso fare a meno di pensare a quanto mi dispiace non averlo conosciuto prima nella mia vita Riccardo.

Ci abbracciamo e, entrati in casa davanti a un the freddo, cominciamo a parlare del libro che vorremmo scrivere insieme, mi investe di emozioni e di aneddoti su tutto quello che gli è successo nella sua ultima Mission e mi catalizza con i suoi dialoghi.

Dal 22 al 24 giugno, infatti, Riccardo e Francesco Gambella, anch’egli recordman mondiale, hanno intrapreso un viaggio durato tre giorni a bordo di una canoa da Ostia a Porto San Paolo in Sardegna, facendo diventare Riccardo il primo disabile al mondo ad aver affrontato questa traversata.

E’ emozionato e con occhi lucidi mi racconta delle tartarughe, dei delfini e mi dice anche: “C’era un traffico che sembrava di stare in tangenziale, non pensavo!”. E sorride con una spontaneità che fa tremare.

Rivederlo mi regala ancora le stesse sensazioni del giorno in cui lo conobbi, a gennaio di quest’anno, in cui grazie a un video realizzato da mio marito e dalla sottoscritta, abbiamo conosciuto la storia di Riccardo e del suo passato prima di diventare un campione.

A 17 anni a causa di un incidente la sua gamba viene amputata e da lì iniziano i problemi che un adolescente, seppur forte, deve affrontare come “diverso” rispetto agli altri.

Riccardo arriverà a pesare 130 kg, decidendo infine che dietro quella gamba che è venuta a mancare, si cela un nuovo messaggio di speranza, una nuova opportunità che lo attende al varco…o meglio…a riva!

Quell’onda che lo porterà su tutti i fiumi d’Europa, a conquistare 7 titoli regionali, un terzo posto ai Mondiali di Ivrea 2008. Nella para-canoa vince un titolo mondiale nel 2010, due titoli europei nel 2011 e nel 2012, 9 titoli Italiani di cui due nel 2013.

L’elenco potrebbe essere infinito, ma non basterebbe comunque a far capire come un omone così grande e massiccio come Riccardo, che esibisce la sua gamba in titanio con orgoglio, possa trasmettere quell’energia e quella forza anche a chi, avendo tutte le capacità per farcela autonomamente, in realtà si senta schiavo della depressione e di quel senso di impotenza, non sempre avendo reali problemi.

Riccardo mi (ci) insegna che la felicità è uno stato interiore, non determinata da quanto si possiede, che non esistono limiti, che è la forza e la fiducia in noi stessi che ci spinge verso ciò che amiamo e che con passione tramutiamo in “interesse per la vita”.

Ed è una vita importante quella di cui si parla, è per la salute delle donne e dei bambini dell’Africa, seguiti dall’Associazione AMREF che Riccardo lotta contro le onde per tre giorni, per raccogliere fondi per i bisognosi.

Sono anche riusciti a raccogliere una bella cifra, sembra quasi contare più questo gesto umanitario per lui, piuttosto che fatto di essere stato il primo ad aver affrontato questo record.

Egli ha saputo andare controcorrente, ha saputo capire che quello che viene meno talvolta ha il suo determinato perché e che non sarà una gamba a fermarci, lo farà solo la nostra mente che resta ingabbiata in schemi predefiniti.

Da trent’anni a questa parte la sua corsa non si è mai arrestata, con ovvie difficoltà giornaliere (anche un Vichingo come lui, è così che lo chiamano gli amici, può attraversare momenti difficili), una moglie speciale e due figli al suo fianco, ma pur con lo spirito e la tenacia di un ragazzino.

Mi guarda con quegli occhi azzurri e lucidi: “Ho buttato giù un sacco di idee, sono sicuro che tu leggendole mi aiuterai a tirarle fuori e a far venire fuori il libro che avrei sempre voluto scrivere!”.

Mi onora che Riccardo abbia scelto me per quello che sarà un libro carico di emozioni, quelle emozioni che solo le persone che hanno affrontato evidenti sofferenze possono condividere.

Non ci serviranno braccia con le quali pagaiare, né gambe, né mani per farlo. Basterà il cuore.

Voglio ringraziare la vita che mi dona la costante opportunità di conoscere persone come Riccardo Marchesini.

A presto,

Letizia T.