Sono abitata da un grido.

Silent ghosts....by laura makabresku on Flickr ..

Sono abitata da un grido.

Di notte esce svolazzando in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare. Dovrei pettinarmi i capelli seduta su uno scoglio in Cornovaglia.

Dovrei portare calzoni tigrati, avere un amante. Dovremmo incontrarci in un’altra vita, incontrarci nell’aria io e te.

Quello che più mi fa orrore è l’idea di essere inutile: ben istruita, piena di promesse, sbiadita verso una maturità indifferente. Come vorrei credere nella tenerezza.

La scrittura è la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo.

Ho bisogno di un flusso di vita, non di questa folata di favole. E’ terribile voler andarsene e non voler andare da nessuna parte. Incominciavo a capire come mai gli uomini che odiano le donne riescono a farne quello che vogliono.

Sono come dei: invulnerabili e potenti. Discendono su di te. Poi scompaiono. Non li puoi catturare.

Che cosa ho mangiato? Bugie e sorrisi. Esco. Vuoi venire? L’isolamento sarebbe troppo pesante; disperata e folle per le strade deserte. A pretendere un destino. Se sorridesse, la luna somiglierebbe a te.

Tu fai lo stesso effetto: di un qualcosa di bello ma che annichilisce.

Sylvia Plath

Quando te ne andrai, chiudi bene la porta.

woman lying on bed

Quando te ne andrai chiudi bene la porta. Dimentica chi eri, dimentica chi ero.

Di noi non sarà rimasto nulla; non siamo che granelli di sabbia in mezzo ad altri miliardi di granelli, che verranno un giorno ripescati da bambini intenti a costruire castelli di sabbia che non dureranno.

Siamo nati per non durare, per essere spazzati via in un soffio, sospesi nel vento, cancellati da sentimenti più eruditi di noi.

Ci siamo conosciuti, amati, maltrattati, siamo stati amici e nemici dell’altro; abbiamo costruito un recinto di protezione per poi distruggerlo con la lentezza di un contadino che lavora la terra, sperando il cielo gli mandi la manna che attende da mesi. Ci siamo difesi dal mondo esterno, e poi abbiamo permesso allo stesso di interferire con i giorni felici, con le cose che avremmo voluto celebrare, insieme.

Tu sei una persona che ho amato moltissimo, in un modo estremo; così come una madre ama il proprio figlio, lo accudisce, lo veste, lo nutre, lo fa sentire sicuro e a casa, contenuto nel micro spazio di tenerezza e consolazione dal mondo. Mi manca tutto, eppur non mi lamento; proseguo nei miei giorni perché proseguire è necessario, mi rende più forte e mi permette di non piangere le lacrime che trattengo per gli istanti in cui mi serviranno.

In una vita di monotonia e perfette abitudini, ho conosciuto la felicità di appartenere a qualcosa di più grande di me, e del mondo intero; ho intravisto la stupefacente bellezza del precipizio e ho immaginato come sarebbe stata la mia lapide nel giorno della morte, perché separarmi da te sarebbe equivalso a morire, solennemente.

Poi invece quel giorno è giunto ed è stato terribile inizialmente, come se qualcuno mi avesse strappato un figlio dal ventre. La separazione è stata così netta da ritrovarmi anestetizzata dall’incredulità. Distacco e nostalgia, ecco cosa sei diventato.

Sangue e dolore alle viscere. Poi accettazione, e gioia per quello che è stato.

Sono stranamente felice e grata per averti avuto, per essere stata una donna amata ferocemente, come i rami amano ferocemente il legno al quale sono attaccati.

Ora che sei di nuovo fuori, chiudi bene la porta. Non lasciare nulla di intentato, proteggi il prossimo che incontri, e non voltarti mai indietro.

Ricorda solo con gioia quel che hai posseduto, che pochi possono dire di aver posseduto nella loro intera vita.

Dimentica chi eri, dimentica chi ero. Dimentica chi eravamo.

Letizia Turrà

Pensiero del giorno

blue ocean water during daytime

Non vi sentite fortunati a poter finalmente scegliere cosa è davvero necessario, scartando ciò che è invece superfluo?

Fortunati nel poter comprendere chi c’è sempre stato, da chi era amico solo nei momenti del divertimento effimero?

Mai come oggi questo tempo ci sta garantendo di poter discernere quello che è reale, da ciò che non lo è; di poterci unire solo con chi è simile a noi per ragioni lontane dalla circostanza, e sempre più vicine alla nostra umanità.

Dovremmo ringraziare per questo tempo da dedicare alla meditazione con noi stessi, al soffermarsi senza più fuggire, all’ascoltare senza più paura del rumore.

Questo tempo non tornerà, né sarà possibile viverlo come lo stiamo vivendo adesso.

Siate grati per ogni giorno, dispensate parole buone che in qualche modo vi ricordino di quanta gioia si può provare nel donare e basta, così, semplicemente.

Siate onda, e non necessariamente mare che travolge.

Letizia Turrà

Il mio ritaglio di felicità preferito

Ho un netto ricordo di quando ebbi modo di provare la felicità: avevo 18 anni e quel giorno mi recai con il caldo torrido di una Calabria selvaggia insieme a una famiglia a raccogliere patate e pomodori nella loro proprietà. Rimane il mio ritaglio di felicità preferito.

Ricordo che partimmo dalla loro casa molto modesta, e che per arrivarci questo ragazzo sconosciuto mi portò sul suo trattore enorme carico di balle di fieno, e mi condusse fino al loro pezzo di terra.

Iniziammo a scavare portando a galla i tuberi; lo facemmo sorridendo lieti, come se avessimo trovato piccole pepite d’oro.

Il caldo bruciava le mie spalle magre e le mani erano doloranti.

Al termine della giornata quello stesso ragazzo mi confessò di essersi innamorato di me. ” Vorrei rivederti” – disse proprio così subito dopo – con accento stretto e marcato, che io sola ero in grado di comprendere.

Ma io sapevo di dover tornare qui, dove mi trovo ancora adesso.

Quel ragazzo non sa di avere lasciato in me questo ricordo; ignora che ciascuno di noi lascia una parte di sé in chi incontra, anche quando non ne è perfettamente conscio.

Non sa che grazie a lui e alla sua famiglia ho vissuto quel ritaglio di felicità, che ricorderò sempre come il mio preferito.

Letizia Turrà

Ph: Tumblr

Marcel

Untitled
Devian art.com

Per tutto il tragitto che percorremmo a piedi lungo i vicoletti, ebbi la sensazione che il suo nome mi appartenesse come qualcosa di sacro, come se la mia bocca dovesse pronunciare quel nome perché io e lui ci eravamo già conosciuti in uno spazio ancestrale precedente. Già solo pronunciarlo la prima volta, mi aveva fornito quella sicura consapevolezza.

I nostri passi erano lenti, silenziosi, mentre le nostre spalle appesantite dagli zaini combaciavano, di tanto in tanto.

Decisi che lo avrei portato a vedere la nostra casa sull’albero.

Quando giungemmo lì e la vide, i suoi occhi si illuminarono.

«Questa sì che è una vera casa sull’albero! Ne ho sempre desiderata una, ma non ho mai trovato un degno alleato che volesse costruirla con me!».

«Io e Jonas, mio fratello, abbiamo intrapreso questa specie di missione quasi tre anni fa. Giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, callo dopo callo, stiamo tentando di ultimarla. Mancano ancora delle assi, quindi non ti consiglio di salirci. Un giorno, ne sono certa, sarà come una vera casa».

Sorrise con tre quarti della bocca mentre continuava a fissarmi negli occhi.

«Tu guardi sempre così le persone?». Pronunciai colma di imbarazzo.

«Così come?».

«Negli occhi dritto così, intensamente. La cosa mi mette in imbarazzo».

«Guardo così solo chi mi piace».

La sua risposta era stata spiazzante, non lasciava spazio all’immaginazione o all’indecisione. Marcel riusciva ad essere affilato come una tagliola.

Sorrisi toccandomi la punta del naso con la mano.

«Siamo qui per pattinare. Vuoi che ti insegni come si fa, o sei già in grado di farlo?».

Non rispose, si infilò i pattini e si portò la cerniera del cappotto alla base del collo. Poi allungò la mano e mi invitò a seguirlo.

Pattinammo a lungo, sostanzialmente senza dirci nulla, poiché non ne sentivamo la necessità. Fu come se quel momento avesse subito una catarsi unitamente al candore della nostra adolescenza, in veste di compagna ancora sconosciuta. 

Nel ritorno a casa mantenemmo ancora quel silenzio placido e irreale che si riserva agli amici che si conoscono da tanto.

Passando davanti alla casa dei Sachs, avvertii la vergogna per il fatto di essermi negata al telefono quando aveva chiamato Pauline. Non vi era una ragione specifica che giustificasse il mio comportamento nei suoi riguardi. Forse era la paura di essere vista in compagnia del mio nuovo amico, a mettermi in allarme più di ogni altra cosa.

Tuttavia, nel profondo sapevo che era la cosa giusta da fare.

Avevo avvertito il medesimo senso di colpa anche quando per la prima volta, qualche giorno dopo, io e Marcel facemmo l’amore.

Ricordo la mia espressione di terrore mentre circondava i miei seni con le sue mani che mi parvero così grandi al punto da raggiungere ogni parte di me. Cedetti a quel bisogno spinta dapprima dalla curiosità, infine dalla voglia di essere violata proprio da lui.

La mia camicetta si era macchiata dell’unico fiotto di sangue fuoriuscito dal mio intimo, esplorato in precedenza solo da un’altra donna.

Avevamo ripetuto quei gesti per infinite volte; nello spazio tra un lavaggio e l’altro avevamo bevuto della birra, deliziata avevo letto ad alta voce le ultime righe del libro di Simenon – quello che parlava dei due amanti – e avevo guardato a lungo il corpo di Marcel mentre lasciava scorrere l’acqua in bagno.

Mi ero sentita libera in quella camera dalle pareti scure, tutto il contrario dell’azzurro descritto da Simenon; avevo toccato il mio intimo con la punta delle dita riscontrandovi un certo rigonfiamento; guardando in basso avevo anche provato a verificare che non fosse troppo arrossato e poi, dopo svariati tentativi falliti, ero ritornata con lo sguardo al soffitto bianco, chiedendomi se in quel momento qualcun altro nel mondo stava provando quello che anche io provavo.

Mi chiedevo se anche Pauline fosse felice come io sentivo di esserlo, in quel preciso momento.

Letizia Turrà