Il bagno aveva rubinetterie dorate e raffinate e tappetini rosa, abbinati rispettivamente per il copri wc e per i piedi.
<<Vieni, ti do una mano a svestirti così potrò mettere questo cencio a lavare, è pur sempre bellissimo ma va pulito se vorrai riportarlo a nuova vita.>>
Anche se la cosa mi imbarazzava un tantino, gli permisi di aiutarmi.
Iniziò con lo slacciare la camicetta e successivamente passò alla gonna, poi fu il momento delle calze e delle scarpe.
Mi sentivo confusa, avvertii una sensazione forte mentre mi spogliava, sentivo una forte attrazione dettata sicuramente da qualcosa di più.
<<Ok grazie, ora posso fare da me.>> dissi paonazza in volto.
Si fermò a osservarmi: <<Non vuoi darmi anche il reggiseno?>>
<<No no grazie, ti porto io il resto, preferisco fare da me!>> e mi voltai dandogli le spalle.
<<Come vuoi, sorellina!>>
<<Aspetta Riky…>>
Si voltò e spalancò gli occhi quando tentai di strappargli la giacca dalle mani.
<<Devo recuperare il mio ciondolo, non vorrei perderlo.>>
Lasciò la stanza.
Riposi il ciondolo sulla lavatrice, un elettrodomestico che non vedevo da anni.
Entrai in vasca, immergendovi la testa completamente; rimasi sott’acqua quasi fino a quando non fui privata del respiro, arrivando al limite del soffocamento.
Guardai le mie mani. Non erano più nere, avevano ripreso il loro colore naturale.
Dopo tutte le riflessioni, riemersi con l’intero corpo dalla vasca, come una persona praticamente nuova, mi vestii e sedetti al tavolo per mangiare qualcosa.
Mi rassicurò il pensiero che non mi sarei più dovuta alzare alle quattro per andare a prendere il pane, come facevo ogni mattina.
Nessuno dei figli in casa parlava la mia lingua, Luigia fu l’unica che si adattò a farlo, per via del suo lavoro di attrice.
Questa cosa non mi fece sentire a disagio, solo ero un tantino confusa per le novità che via via si succedevano.
Luigia era una donna prorompente e bella, possedeva tutte le qualità che un uomo desidererebbe in una donna. Tranne una: non era in grado di cucinare neppure un uovo.
Erano le sette del pomeriggio ma ancora nessuno dei suoi figli era rientrato.
Pensai al fatto che mio padre avesse preferito abbandonare me e mia madre in America, proprio nel momento in cui avremmo avuto più bisogno di lui, per crearsi una famiglia parallela in Italia.
Era tutto così nuovo per me e le emozioni erano state davvero così tante, che stentai a credere che in così pochi anni un essere umano potesse riformare la propria vita, quasi come se avesse subito una sorta di reincarnazione, una seconda opportunità che lo aveva portato a rivalutare la vita precedente, al punto da accettare quella nuova come l’unica plausibile.
Gli amici di mio fratello erano i classici figli di papà della Roma bene, tutti ricchi e ben vestiti, con poco rispetto per la vita e per il prossimo.
Non avevano certo sofferto la fame come era successo a me e i loro genitori forse non avevano mai avuto paura di perdere il lavoro, come era invece successo a mia madre.
Mi sentivo una specie di aliena tra loro, soprattutto perché non parlavano la mia lingua, al contrario di mio fratello Riky, che fluentemente parlava inglese e italiano, e per me fu sbalorditivo.
Si stava così bene in fondo in quella casa che non potevi fare a meno di desiderare che fosse sempre stata quella la tua vita.
A scuola venivo da molti etichettata come “l’Americana”, soprattutto dai ragazzi del corso di chimica, alcuni tra loro mi prendevano di mira e mi schernivano. Uno in particolare era molto insistente. Si chiamava Giampiero.
Era figlio di un regista che in Italia era noto per aver fatto un solo film ma che aveva avuto un grande richiamo da parte del pubblico.
Tutto quel clamore per una sola pellicola interpretata da un’attrice carnosa e abbondante che arrivava dal Sud le cui uniche qualità erano quelle di essere bellissima!
Solo in Italia infatti accadeva che vi fosse tanto clamore e tanto festeggiamento nei confronti della mediocrità. Tutto, pur di festeggiare il “niente”.
Letizia T.
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