Sto soffiando sulla tua fronte.

Sto soffiando sulla tua fronte, puoi sentirlo?

Ora soffio nella tua bocca, in quella piccola fessura dove più volte il mio nome s’è fatto spazio.

Ora ti soffio sul cuore, poi sollevo la tua mano destra e insieme tendiamo le braccia verso l’alto facendo finta di volare.

Puoi sentirlo? Puoi vederlo, vedermi?

Vago cieca per le strade, sorda e muta come qualcuno che non esiste. Solo, cammino come farebbe chiunque possedesse un paio di gambe robuste e forti.

Ma sono gambe pesanti, ingigantite da traumi.

Ora ti tengo la mano, puoi stringerla anche tu? Forniscimi l’illusione di essere ancora qui. Fa che il mio canto leggero diventi musica che riempie gli spazi dello spazio dove tu, ora sei.

Chiudo gli occhi, sono una bambina: c’è una festa con tanti addobbi fatti di carta e plastica colorata; ci sono tre pagliacci grandi e grossi che sorridono con i loro occhi scuri e dei vestiti giganti; c’è mio padre pettinato con la gelatina e abbigliato con un vestito beige e una camicia larga color panna che si stringe fin sopra il collo donandogli ancor più le fattezze di un ramo secco.

Io e Jonas siamo vestiti per bene, puliti e profumati come due gemme; posso avvertire il peso del mio codino posto in cima alla fronte che mi fa sentire ridicola. La mamma siede su una sedia con l’aria affranta e gli arti gonfi; non le importa di perdersi la festa. Non festeggia da anni alcuna ricorrenza.

Come una mano mansueta la musica lontana mi sfiora il volto bagnato da lacrime sbarazzine. 

Mi sento inquieta perché ho sempre odiato i pagliacci. Dicono bugie: lo vedi quando ridono, che stanno fingendo; si intravede dal rossetto sbavato sui denti quando gesticolano disarmonicamente e poi subiscono le risate malsane del pubblico.

Solo chi, come me, costretto da sempre a portarsi addosso un mare di odori e di sapori della gente che incontra, può avvertire la loro tristezza profonda, uguale alla mia.

Letizia Turrà

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