La solitudine..

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La mia testa era talmente carica da sembrare un orologio i cui ingranaggi rotti creavano solo un gran frastuono.

Ripensai a Cesare e al modo in cui ci eravamo lasciati.

Non lo sentivo da più di una settimana e capii di esserne realmente innamorata solo quando non lo ebbi più al mio fianco.

Ritenevo che la solitudine fosse una componente importante della vita di ciascun essere umano, da non vivere come una condanna inflittaci ma come un prezioso momento di raccoglimento nel quale è possibile conoscerci in profondità.

Nelle scelte quotidiane al contrario io mi ero inflitta una condanna ben peggiore: avevo scelto di dire no all’amore e la solitudine, divenuta la mia unica compagna di vita, si era trasformata in un vuoto incolmabile, da riempire, come fosse un raccoglitore dei sentimenti che non doveva restare vuoto troppo a lungo.

Se invece avessi vissuto nel modo appropriato quella circostanza non avrei fatto le scelte sbagliate che ho fatto.

Ci sono cose semplici e ci sono cose difficili.

Nelle cose semplici risiede quello di cui abbiamo bisogno realmente, nelle cose difficili quello che crediamo sia giusto per noi desiderare.
Ecco perchè trascorriamo infelicemente il nostro tempo a cercare quello che vogliamo, che spesso non coincide affatto con ciò di cui abbiamo reale bisogno.

E ciò di cui aveva ora bisogno erano cose semplici, reali, di un abbraccio sincero, qualcuno che guarisse le mie cicatrici e le amasse, da quel momento in avanti.

“Il labirinto di orchidee, Niente è come sembra” di Letizia Turrà

Confessioni di una Escort – CAPITOLO quattordicesimo

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Mi abbraccia sulla porta.

<<Baby ricorda che ti voglio bene, al tuo ritorno abiteremo nella nostra nuova casa, ma ci pensi??!>> ride come fosse una bambina piccola e si sfiora la pancia.

Scendo le scale senza neppure un grande entusiasmo ma poi lo vedo lì: bellissimo, in giacca e scarpe eleganti come quando lo avevo conosciuto alla fermata dell’autobus, con gli occhiali da intellettuale topo da biblioteca. Mi eccitava da morire.

Fu lì, in quell’istante, che compresi che la sola visione di un uomo che mi attraesse era in grado di eccitarmi, non era solo perché si trattava di lui, qualcosa di più scattava dentro di me.

Prevaleva ormai la parte incontentabile di me, forse ero una di quei tipi donna che avevo sempre aspramente criticato prima di guardarmi all’interno come facevo ora.

Lo abbracciai e baciai.

Ho capito perché aveva scelto la Limousine, i finestrini erano oscurati, un vetro divideva noi e l’autista e fummo liberi di lasciarci andare per tutto il viaggio fino all’aeroporto di Malpensa.

<<Ho avuto l’impressione che per quel tuo amico Fabio tu fossi molto importante, da quanto tempo lo conosci?>>

<<Lo conosco da parecchio tempo, quanto basta per poterti dire che se fosse dovuto scattare qualcosa tra noi sarebbe già successo tanto tanto tempo fa, non certo ora. Non è il mio tipo te l’assicuro.>>

<<Meglio così, anche perché ora sono agitatissimo e sono anche geloso pazzo di te.>>

<<Ma tu stai tremando… è tutto ok?>>

Estrasse dalla tasca un piccolo pacchetto azzurro. Lo aprì e fu lì che rimasi sconvolta.

Era un anello. Non un anello qualsiasi. Un anello con diamanti, un anello che serviva a definire quanto impegnativo fosse diventato il nostro rapporto.

Cominciai a tremare anche io.

<<Louisiana, io ti amo davvero, prima che tu vada via dovevo dirtelo. Questo anello è segno della mia promessa di voler amare solo te d’ora in poi, non è una richiesta di matrimonio, ma ti prego di accettarlo come promessa d’amore.>>

Quel Ti amo mi fece sprofondare nel panico più completo, non me lo aspettavo, non lo volevo, ma che diavolo mi prendeva??

Avevo il cuore a pezzi. Ecco il famoso anello che fece sprofondare la mia autostima sotto terra.

L’uomo che amo mi stava dicendo che mi amava ed io non ero stata capace di rispondergli a dovere.

Possibile che io stessa avessi portato il nostro rapporto verso una meta che ora non volevo più raggiungere?

Eppure fino a due giorni prima abbiamo fatto l’amore come due amanti che guardano al futuro insieme. Sono una vigliacca, questo è certo.

Lo guardo senza fiato e riesco solo a dirgli: <<Josh perdonami, ma non mi sento pronta ad accettare promesse d’amore in questo momento. Tu sei un uomo meraviglioso, ma un anello è troppo per me. Non ti conosco da così tanto tempo da capire se ciò che provo per te sia amore vero o meno, perdonami. L’unica cosa che in questo momento posso garantirti è che ritornerò fra le tue braccia al termine di questo viaggio, ma non posso dirti sì ora.>>

Non riusciva a nascondere quanto fosse scosso. Non si aspettava il mio rifiuto e ne rimase deluso.

Di fronte ad un uomo che dice di amarti e ti offre un anello in dono, se anche tu sei innamorata, sfido chiunque a rifiutare una proposta come quella che Josh ha fatto a me, ma non sono in condizione di affrontare un legame così forte. Non voglio essere la donna di nessuno in questo momento. Sono libera e voglio essere del mondo.

Ci lasciamo davanti all’imbarco.

Ora più che mai sento che separarmi da lui sia la cosa giusta da fare.

Aldilà del muro – Diario e confessioni di una Escort” di Letizia Turrà

Photo: Facebook

In ogni momento, abbiamo sempre una scelta…

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Dopo le quattro ordinarie mandate, ella si trovò nel solito salotto dove di consueto incontrava Scott.

Questa volta era diverso, non c’era nessuno.

Sedette nel silenzio, attendendo che qualcosa succedesse.

Alle sue spalle sentì pochi e silenziosi passi.

<<Mi dispiace averla fatta attendere Patricia. Ora non si spaventi, chiuda solo gli occhi, per favore.>>

Scott si avvicinò al suo viso e da dietro le sistemò una benda scura sugli occhi.

<<Che significa questo?>>, disse dubbiosa.

<<Facciamo un gioco, Le va?>>

<<Lei è furbo Scott, sa che mi piace giocare.>>

<<Non così tanto furbo, ricordi che si tratta solo di esperimenti in fondo.>>, disse calmo.

Patricia avvertì il buio come qualcosa che si poteva tastare, di palpabile e concreto. Scott teneva le mani delicatamente poggiate sui suoi orecchi.

<<Iniziamo. Sto per porgerLe in mano qualcosa da bere, vorrei che mi dicesse di cosa è fatto.>>

Rimase stupita da quella richiesta insolita e turbante. Riuscì a scorgere il bicchiere appena al di sotto della sua mano tremante. Freddo, rotondo, liscio.

Bevve dal bicchiere.

<<Che cosa vuole sapere esattamente?>>

<<Gliel’ho detto. Voglio che Lei mi descriva di cosa è fatto.>>

<<Come sarebbe di cosa è fatta? L’acqua è acqua, non è fatta di niente. E’ trasparente, dissetante, ha la consistenza di….>>

<<Continui… .>>, la incitava a proseguire Scott serafico.

Patricia capì che ciò che lui le stava chiedendo era di definire un’emozione, non la sostanza.

Work in progress di Letizia Turrà

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Pagina 169…

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Lo guardavo con il magone in gola, la mano destra ferma a serrare la bocca e lo sguardo fisso sul suo colletto, neppure diretto a lui, ma alla mia mano tremante che stringeva quel foglio.

Non sapevo se sentirmi nuovamente delusa o sollevata.

Delusa perché ancora una volta Cesare mi lasciava sola, e sollevata perché ora da sana potevo affrontare l’ennesima disfatta con maggiori energie senza permettere che eventi di questo genere mi distruggessero come un tempo.

Viaggiavo sul treno della coscienza, di cui potevo avvertire solo lo sferragliare delle giunture, pigre e arrugginite.

Quei treni possiedono quel fascino, anche quando non sai quanto ci vuole per arrivare a destinazione, sempre che vi sia una destinazione.

E se non c’è che importava, pensavo a quel punto, dato che nessuno mi aveva imposto di salirci. Nessuno ti impone di affrontare un doveroso viaggio.

Tutto avrà senso poi, quando anche il senso perderà il sapore del senso.

Era con questo animo che affrontavo l’abbandono dell’uomo che amavo e che stavo quasi per illudermi sarebbe stato il padre dei miei figli e il testimone di una vita al mio fianco.Tutte fandonie.

Non c’era una dannata ragione per la quale sarebbe dovuto andare tutto secondo i miei piani.

Presi coscienza che l’aver tagliato ogni comunicazione con la mia famiglia e con le uniche persone rimaste tra i miei affetti, non era stata una saggia decisione.

Avevo agito di impulso convinta che Cesare non mi avrebbe mai più abbandonata.Nel mio intimo arrivai anche a pensare che avrei potuto tranquillamente vivere senza di lui, al di fuori del nostro rapporto.

Non dipendevo da lui, quindi forse amavo più me stessa di quanto non amassi lui.Ora che non potevo contare su nessuno quale peso avrebbero comportato le mie scelte sul mio futuro?

Forse dovevo semplicemente abbandonare i dubbi e lasciare che il treno mi portasse a destinazione senza pensare alle conseguenze che prima o dopo avrei riscosso.

Cesare mi aveva insegnato cosa volesse dire amare nella semplicità smettendo di ricercare tutte quelle cose difficili con cui talvolta, pur sapendo che soffriremo, ci interfacciamo quasi come se volessimo sfidare la vita e la sua tenacia.

La malattia mi aiutò invece a capire che l’unico traguardo che realmente ti interessi raggiungere nel momento in cui sei dentro al vortice è quello di guarire, tutto il resto non diventa che un corollario del quale in realtà se hai la salute puoi fare anche a meno.

Mi alzai dal tavolino del bar con sguardo fiero.

-“Buona fortuna Cesare, non posso che dirti questo. E’ giunta l’ora che io pensi a me stessa.”Si appoggiò allo schienale della sedia allargando le braccia.

-“E’ tutto ciò che hai da dire??”

-“No, in realtà vorrei anche dirti di andare a farti fottere, ma conoscendomi sapresti che non era questo quello che volevo dirti. E’ solo giusto che tu lo sappia, ma non sono le ultime parole che vorrei ti pervenissero per mio conto.”

“Il labirinto di orchidee” di Letizia Turrà

Photo: Google

“Mi dispiace”, quella parola tanto difficile da pronunciare.

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<<Mia madre cercava l’amore Sig. Scott, e lo ha trovato nelle persone sbagliate.>>

Scoppiò in un pianto a dirotto, disarmante per l’uomo.

<<La prego non faccia così. Io sono qui, può piangere per tutto il tempo che vuole, se lo desidera.>> poggiò la mano sulla sua spalla.

In quel momento ella avvertì tutto il suo calore, così presente, così importante, così imponente.

<<Mi perdoni Patricia, mi perdoni per averle chiesto di raccontarmi qualcosa che va oltre la sua sopportazione.>> dolcemente distaccò la mano facendo passare un dito sotto alla sua scapola.

<<Non è colpa sua, il vero problema è che ogni volta che apro questa parentesi io sto da cani. Non è stato facile per me. Non è facile sapere di non poter più giocare con i tuoi compagni di infanzia perché i loro genitori, sapendo di quale malattia è morta tua madre, impongono ai figli di evitarti perché loro non prendano la stessa malattia. Ho passato un’infanzia da sola, a farmi venire le spalle larghe per non prendere le botte a scuola dai miei compagni. Ho imparato a fregarmene dei giudizi altrui, ho imparato a rispondere alle offese, a guardare il cielo per quello che è, un tappeto di stelle così lontane tra loro da non riuscire mai, proprio mai, a toccarsi. E pensare che la gente crede ancora alla storia delle costellazioni…>>

Rimase in silenzio.

<<Qual è la parola che le viene più difficile pronunciare?>>

Ci pensò un po’ su.

<<Mi dispiace. “Mi dispiace” è in assoluto la parola più difficile da dire, rispetto alla parola “scusami”. Perché la seconda si dice per educazione, ma la prima si dice per sentimento, perché senti dentro il dispiacere per aver fatto del male a qualcuno, o magari per aver deluso chi amavi o, peggio ancora, per aver deluso te stessa. Ecco, io non riesco a dire mi dispiace neppure a me stessa, per tutte le volte che mi sono tolta un pezzo di cuore e l’ho donato a chi non lo meritava, come John.>>

<<John è l’uomo che l’ha spinta a trovare quello che stava cercando in quel mercatino?>>

<<Lo sa Scott, lei ha il potere di leggere dentro le persone e non so proprio come possa farlo. Sembra conoscermi più di quanto io non conosca me stessa. John è l’uomo che mi ha stretta con le braccia del vero amore e quando anch’io ho stretto forte, ha mollato la presa facendomi provare l’orrore di un salto nel vuoto. L’ho amato, lo amo ancora e forse lo amerò sempre.>>

<<Bukowski diceva che le persone sono lo spettacolo più bello al mondo. Io ritengo che possano anche essere la delusione più grande, se lo vogliono. Mi auguro solo lei non smetta di credere all’amore, che è invece tutt’altro che deludente. Troverà la busta con i soldi all’ingresso. Grazie per avermi dedicato il suo tempo. Mi dispiace di averla fatta piangere e lo dico davvero sentitamente, mi dispiace. il nostro tempo è finito.>>

<<Abbiamo già finito? E’ volato il tempo, non me ne sono neppure resa conto.>>

<<Il tempo è relativo, la cosa fondamentale è come sarà trascorso prima che si torni a guardare le lancette.>>

Patricia sorrise abbassando gli occhi e si diresse verso la porta.

<<A domani Scott.>>

<<Non lo dica.>>

<<Cosa?>>

<<A domani. Non dica mai quella parola, se non ha la chiara intenzione di ritornare.>>

“IL POSTO PIU’ BELLO DEL MONDO E’ DA NESSUNA PARTE”   (2016) di Letizia Turrà

TUTTI I DIRITTI SULL’AUTORE SONO RISERVATI, VIETATA LA RIPRODUZIONE, ANCHE PARZIALE.

Photo: Google artists

Tutto quello che si può intravedere delle cose misteriose…

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Attese qualche minuto, mentre di Scott poteva intravedere solo le gambe, poi arrivarono le quattro mandate e Gustavo le aprì la porta.

Presero insieme l’ascensore.

<<Allora che gliene pare?>> la guardò curioso.

<<Di cosa? Non lo so, è un tipo particolare, senza dubbio ha delle belle gambe, visto che sono l’unica cosa che ho visto finora!>>

<<Sì, lo è. Ma è senza dubbio anche la persona più speciale che io abbia mai conosciuto in vita mia.>> sorrise.

<<Mi ha detto che i soldi me li darà lei perché lui aveva preparato un assegno.>>

<<Perché si fa pagare da un uomo tanto piacevole scusi?>>

<<Si faccia i fatti suoi, scusi! E’ stato lui a chiedermi di farlo per soldi ed io ho accettato solo per questo. Non è successo niente di strano lì dentro, noi…conversiamo. Io do qualcosa a lui, e lui da qualcosa a me.>>

<<Sarà, ma non tutto quello che paghiamo alle volte ha lo stesso valore di un amico che resta ad ascoltarti in silenzio, rispetta i tuoi spazi, e se resta inerme a prendersi il tuo dolore, pur sapendo che lo sconvolgerà.>>

Rimase in silenzio, rivolgendo lo sguardo al pavimento dell’ascensore.

<<Sono una merda. So cosa sta pensando di me, Gustavo. Ma mi creda, non mangio da giorni perché non ho i soldi per la spesa e non faccio il bucato da tre settimane perché non ho il detersivo della lavatrice. Neppure quello riesco a comprare. Ho ancora tre rate di affitto da pagare.>>

<<Va bè. Facciamo finta che per il momento io non le abbia detto nulla. Qui ci sono cento cinquanta Euro. Fino a domani credo riuscirà a sopravvivere.>>

<<Sarebbe la paga per la settimana questa?>> i suoi occhi si illuminarono.

<<No, è la paga giornaliera! A domani.>> Gustavo scosse la testa.

Voltatosi, se ne andò da dove era venuto.

Prese velocemente quei soldi come si prenderebbe la manna dal cielo, e se ne andò, incredula e sbigottita.

Salì sul primo taxi per tornare a casa visto che poteva permettersi di pagarlo.

Passò dal supermercato dove acquistò un pollo pronto, delle patate novelle, degli arancini, due birre, e persino il detersivo per la lavatrice.

Capitolo in lavorazione, dal nuovo libro di Letizia Turrà

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BRUCE SPRINGSTEEN, QUANDO PAROLE E MUSICA NON HANNO BISOGNO DI MENTIRE.

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Mi siedo sulla poltrona, è il momento che preferisco della giornata, quello in cui posso togliermi le scarpe, buttare per terra la giacca, lasciar scivolare via i pensieri e mettere un cd nel mio lettore, con dell’ottima musica.

In questi casi non scelgo mai un disco qualsiasi, come quelli che si scaricano. Io desidero e voglio che esso sia speciale, che mi porti lontano; che serva a comunicarmi che esisto e che quella musica mi proteggerà in qualche modo da ciò che ho subito durante la giornata.

Tengo premuto il tasto Play, track n° 1, e il gioco è fatto.

Vengo rapita dal suono doppiato di una batteria e una tastiera. Il mood lento e ripetitivo, mi riporta quasi come nel grembo materno.

Una voce calda e struggente giunge 29 secondi dopo, trascinandomi.

E’ quella di un uomo di 44 anni, che con voce roca, avvolgente e una pronuncia netta, ti spiega cosa significhi per lui cantare.

E’ la voce di Bruce Springsteen, l’anno è il 1993, la canzone in questione è “Streets of Philadelphia”.

Il 25 agosto di quest’anno il suo “Born to run” ha compiuto 40 anni.

Rifletto su quel mitico 1993, mi rendo conto che sono trascorsi velocemente 22 anni, che non hanno spento la stella di Bruce, né la sua incomparabile energia che ancora oggi lo vede esibirsi con successo in estenuanti concerti in tutto il mondo (nel 1978 raggiunse 115 concerti in un anno), e che gli sono valsi il famoso appellativo di “The Boss”.

Primogenito di tre figli, nasce a Long Branch, un comune degli Stati Uniti d’America, nella Contea di Monmouth, nello Stato del New Jersey, il 23 settembre 1949, da padre di origini irlandesi e olandesi e madre italiana.

Il padre sarà una figura contrastante nella vita di Bruce, il conflitto tra i due sarà forte e i dibattiti accesi, forse per via del precariato dell’uomo, alla continua ricerca dei lavori più disparati, mentre la madre lavora come impiegata in uno studio legale.

Il suo primo incontro con la musica avviene poco prima del compimento dei suoi 7 anni, quando vede per la prima volta lo straordinario Elvis Presley all’Ed Sullivan Show, una trasmissione a quei tempi diventata istituzione in America.

Deciso a voler diventare come il suo beniamino, chiede ed ottiene in dono per Natale la sua prima chitarra giocattolo.

Due anni più tardi la sua passione viene interrotta dalle sue mani troppo piccole, che non gli permettono di suonare efficacemente uno strumento vero, preso in affitto da sua madre, nella speranza che quel ragazzo le dimostri che fa sul serio con la musica.

A 17 anni Bruce sceglie quale sarà il suo percorso, vuole suonare e vuole farlo bene, perfezionandosi nella tecnica. Acquista così una chitarra acustica al prezzo di 18 dollari, grazie ai piccoli lavoretti svolti nel quartiere.

Sua madre decide di premiare quell’impegno profuso con tanta dedizione. Con molti sacrifici e un prestito, riesce a comprare al figlio una chitarra elettrica Kent e un amplificatore.

Il ragazzo amerà quel dono al punto da dedicare a quella chitarra la sua “The Wish”.

Bruce trova ispirazione nel mondo circostante e nelle musiche trasmesse alla radio, dai Beatles agli Animals, dai Rolling Stones agli Who.

Capisce che è del rock che è innamorato, seppure la sua musica verrà influenzata dai differenti sound.

Dopo molta solitudine trascorsa nelle quattro mura al fine di migliorare la sua tecnica, fonda il suo primo gruppo, con il quale la collaborazione si interrompe dopo breve tempo.

Dopo vari tentativi, il 10 luglio del 1971 Bruce fonda la “E Street band”, formata da Gary Tallent al basso, Van Zandt all’armonica, Vini Lopez alla batteria, David Sincious alle tastiere e Bruce alla chitarra.

Riesce ad ottenere un’audizione con Mike Appel e Jim Cretecos, due parolieri dell’epoca, ma il provino sarà un buco nell’acqua.

La seconda possibilità si ripresenta nella primavera successiva con John Hammond, un abile talent scout, che concede a Bruce l’opportunità di incidere alcune demo.

La formazione della band si consoliderà definitivamente nel 1974. Quello stesso anno conosce Jon Landau, critico del Rolling Stones, che di lui al termine di un concerto scrive: “Ho visto il futuro del rock’n roll e il suo nome è Bruce Springsteen. In una sera in cui avevo bisogno di sentirmi giovane, lui mi ha fatto sentire come se ascoltassi musica per la primissima volta”.

Quella critica aveva fatto centro, facendo apprezzare al pubblico le doti di autore e leader del “Boss”.

Le sue composizioni migliorarono in profondità e ricchezza dei contenuti, al punto che egli finì per essere considerato un poeta col chiaro intento di risvegliare le coscienze sociali dei creduloni ancorati al sogno americano. In merito a questo, infatti, confermerà: “La mia musica ha sempre voluto misurare la distanza tra la realtà e il sogno americano”.

Con la religione manterrà un rapporto distaccato e da osservatore, tipico dei poeti, schivi e riflessivi.

Questo arricchimento interiore lo porta a rivalutare l’idea di agire anche da solo, al di fuori della band, mettendo in mostra nei suoi testi molte delle difficoltà e peripezie che ha dovuto affrontare anche a causa di una vita matrimoniale sull’orlo del fallimento, e del rapporto difficile con la figura paterna.

Non può fare a meno di rimanere colpito dai fatti di cronaca che avvengono nel mondo, per cui esprime un pensiero solo esclusivamente attraverso le sue canzoni. Il giorno dopo l’attentato alle Twin Towers di Manhattan, Bruce si reca su una spiaggia di New Jersey per vederne il panorama deturpato. Un uomo lo vede e gli urla: “Ehi, abbiamo bisogno di te!”

Per lui è la riconferma che nulla accade per caso, e che un’artista, che ha un dono come il suo, lo deve utilizzare per aiutare gli altri, perché dovunque siano morti degli uomini, in precedenza c’era vita.

Egli sa bene che quegli uomini, come molti altri, sono morti per vedere il loro sogno americano infrangersi.

Bruce, così bello e tonico sul palco, così grintoso, un uomo che sembra insormontabile, ma che io, attraverso la sua voce, riesco invece a percepire come tenero e bisognoso di una parola, quella stessa parola che lui ha donato agli altri, narrando le loro storie.

E’ questo che fa un artista, dona anima e produce sentimento dal palmo della mano che scrive, certo che il suo messaggio, in un modo o in un altro, giungerà a destinazione.

Ora che la musica è terminata e la giornata volge al termine, mi chiedo ancora se il pezzo successivo sarà in grado di entrarmi nelle vene come questo appena sfumato.

So bene che la risposta è no, perché ogni opera è unica e ognuna ti farà sentire in modo diverso.

Potrei schiacciare “Rewind” e ricominciare daccapo.

Forse lo farò, siederò e aspetterò di nuovo l’arrivo di quei 29 secondi, ritornando al grembo materno.

A presto,

Letizia Turrà

Photo: Google

 

La recensione del mese “Atti osceni in luogo privato” – Perchè dovreste leggerlo???

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Se è vero, secondo quanto sostengono i veterani, che la letteratura italiana è morta dopo Calvino, allora vale la pena di richiamare l’attenzione su qualcosa di fresco e attuale, per comprendere che forse non è proprio così.

Mi viene suggerito da un attento lettore il nome di Marco Missiroli.

L’autore è giovane, un mio coetaneo, ma ha già riscosso notevoli successi, sin dalle prime pubblicazioni dei suoi scritti risalenti al 2005.

Del suo libro se ne parla da tutta l’estate ormai, seppure la pubblicazione risalga al mese di marzo, con pareri quasi unanimi circa la bellezza e la semplicità, lasciando nel lettore una sorta di stupore privo di imbarazzo, nonostante i contenuti pieni, e il modo di esprimersi dell’autore che non si risparmia sui dettagli.

La copertina è piuttosto eloquente.

Il lettore che per puro caso vi si imbatterà entrando in una libreria, non potrà fare a meno di notare che, man mano che si avvicina, quel buco nero in lontananza che sembra quasi raffigurare arte contemporanea, altro non sono che un paio di natiche, tenute strette dal soggetto fotografato, in un’opera realizzata da E. Blumenfeld, esposta realmente in un museo a New York.

La scelta dell’immagine vuole apparire provocatoria, questo è chiaro, quindi decido incuriosita di aprire il libro su una pagina a caso, e nel proseguire scopro che narra le vicissitudini di un dodicenne, il cui profilo si snoda attraverso la storia dei genitori che si stanno separando, con tutte le angosce, le inquietudini e le curiosità che un adolescente possiede a quell’età.

Lo scenario si apre con una sequenza di vita quotidiana, una madre che prepara dei cappelletti discorrendo di come l’utero fosse il principio della modernità, e un padre che discute animatamente di rapporti orali arrivando a definirli: “Le meraviglie del cosmo”.

Proprio in quel frangente il ragazzo si trova a Parigi, dove si è appena trasferito con i genitori, ed inizia a sospettare che la madre possa tradire suo padre. Ogni dubbio viene dissolto quando la vedrà con i suoi stessi occhi intenta nell’atto sessuale con Emmanuel, amico di famiglia.

Sarà quella visione di sua madre e del suo amante il momento cruciale nel quale egli comprenderà di avere una propria individualità sessuale, che si sviluppa in modo contorto nel rivolgere i propri desideri verso la donna che lo ha concepito.

Una visione che avrebbe dovuto profondamente turbare quel ragazzino, ma che invece rappresenta l’inizio della scoperta della sua personalità complessa, che fino ad allora egli ritiene quasi invisibile.

L’intreccio continua a svilupparsi in Provenza, dopo la separazione dei genitori, quando Libero si innamora di Marie, la fidanzata dell’amante di sua madre, e il suo desiderio sessuale viene proiettato sulla fanciulla, rimanendo però solo un sogno irreale.

La svolta avviene quando nella sua vita entra Antoine, amico di Libero, nonché fratello di Lunette, con la quale perde la verginità e successivamente intraprende una relazione complicata e tortuosa, con lui che si rivede al suo fianco non solo come suo compagno, ma immaginandola anche con altri uomini.

I due compiranno un viaggio in America e la ragazza verrà incoraggiata da Libero ad avere rapporti sessuali con un altro uomo, mentre egli assisterà alla prestazione, al pari di un regista.

Lunette rimane sconvolta da quella circostanza, al punto che decide di separarsi da Libero.

L’uomo, ormai entrato in quella che verrà definita volutamente dall’autore “Adultità”, vivrà una crisi profonda che lo porterà a diventare amante di donne sposate, così come era stato Emmanuel per sua madre e ad avere rapporti occasionali.

Una rabbia incontenibile, implacabile, lo assale non senza un movente.

Come spesso nella vita accade, infatti, è proprio il dolore profondo, il lutto interiore a darci la forza di conoscere a fondo noi stessi, risalire e ricominciare, più forti di prima.

Ritorna a Milano e conosce Anna, che diventa la compagna ideale per lui, sessualmente appagante e amorevole, che egli ringrazia per avergli donato nuova vita, chiedendole in un settembre di diventare sua moglie.

Mentre Anna è in attesa del loro primo figlio, la madre di Libero si ammala gravemente. Viene a conoscenza del fatto che manchi ormai poco alla morte della donna più importante nella sua vita.

Per fortuna la gravidanza di Anna gli permette di contemplare una bellezza che credeva perduta, quella delle attese, fatta di emozioni legate al soffermarsi sui dettagli, come i titoli di coda di un film, che raramente si resta a guardare al termine di ogni proiezione.

Il 27 dicembre nasce Alessandro, il suo primogenito.

I giorni passano lieti assistendo alla vita del piccolo, mentre sua madre decide di togliersi la vita in una clinica di Zurigo, assistita dal personale medico, rimasto impotente di fronte alla decisione della donna di chiudere gli occhi in un modo tanto atroce.

E solo allora Libero comprende che i genitori non avevano scelto a caso il suo nome, l’intento era stato quello di lasciare che come essere umano egli si ritenesse consapevole di conquistare da sé il proprio destino, scegliendolo in totale libertà.

Capì che vi era qualcosa di nascosto, che aveva scoperto in sua madre: la dignità di scegliere.

Descrive così il momento del ritorno in aereo dal suo funerale a Milano, quando rientra in casa e si rende conto che i cappelletti che la tata aveva preparato erano quelli lasciati da sua madre:

“Li fissai, in fila come soldati, la pasta schiarita dal gelo, le teste della stessa misura, mai sbilenche, alte uguali. Passai un dito su ognuno, li sfioravo e cercavo una bruttura nel taglio, la sbavatura della sfoglia, distrazioni nell’orlo. Uno era più corpulento. Lo presi, lo appoggiai sul palmo e chiusi il pugno, adagio…”.

Il resoconto prosegue, per ben trentuno cappelletti, che rappresentano il momento del ritorno di Libero a quello che era stato anche il punto di partenza.

Perché è di questo che si tratta: ripartire da dove la nostra vita si è fermata senza chiederci neppure il consenso, in un dato momento a noi sconosciuto, ma che nel susseguirsi di un viaggio ritorna, prima o dopo, che noi lo vogliamo o no.

E se lo fa, state pur certi che la coscienza di quel che vi è accaduto sarà maggiore, e nulla sarà più uguale.

Tanta fretta di crescere genera storie, ma nel viverle ci si sente frastornati e alla continua ricerca di un equilibrio, mentre il nostro essere è in continua formazione.

Come lo stesso Calvino ammise un tempo: “Alla fine uno si sente incompleto ed è soltanto giovane.”

A presto,

Letizia Turrà

 

Quando un libro può salvarti la vita….

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Vent’anni più tardi, Giovedì 14 settembre

P.za Diaz – mercati Vintage, Milano

 

Sandra arrivò come sempre in ritardo, vestita con una assurda pelliccia ecologica, un fuseaux in pieno stile con la giungla milanese, uno stivale borchiato aggrovigliato alla caviglia e un paio di occhiali scintillanti di Gucci. Una genuina e reale Lady Gaga.

Tra cianfrusaglie, occhiali degli anni cinquanta, statue di marmo di carrara, anelli in ottone e bronzo, abiti di scena scintillanti, paillettati e perlinati, Patricia si era recata lì con la seria intenzione di trovare un libro, o meglio, il libro.

L’aveva sempre saputo che un giorno si sarebbe voltata e lo avrebbe visto lì, fra tanti, dapprima sfocato con la coda dell’occhio.

Sarebbe stato il libro giusto, con la giusta copertina e la giusta rilegatura; con quel tipico carattere in rilievo, forte e deciso del titolo.

La guardò, ormai priva di speranza.

<<Ma come diavolo sei vestita?>> la squadrò dai piedi alla testa.

Patricia accese la sigaretta.

<<Potresti evitare per una volta, una soltanto, di rompermi il cazzo per come mi vesto? Sono qui per un libro, non per trovare l’uomo che mi metta l’anello al dito. Piuttosto tu che cosa hai in mano?>>

<<Caffè americano. Ne vuoi?>>

<<Bevi ancora quella merda? Ma come diavolo fai? E’ un bibitone annacquato, non sa di niente!>>

Sandra la osservò di sfuggita e cominciò a rovistare tra i libri, usati e nuovi.

<<Lo sai – disse ammiccando – un libro è come l’uomo giusto, se è quello che ti colpisce in mezzo a tanti, allora vuol dire che non devi fartelo scappare, devi affondare le tue mani in quel benedetto cesto e cercare di accaparrartelo, prima che arrivi qualcun altro a prenderselo.>>

<<Sai che non esco con un uomo da quando John se n’è andato vero? Comincio a nutrire sempre di più il sospetto che l’essere umano si senta attratto dalle cose solo se le perde, solo se non sente più quel senso di appartenenza a quella determinata persona o sensazione. Forse talvolta conviene perdere, per riuscire a comprendere. Mi inaridisco se penso a lui e alla sua strampalata idea di diventare uno scrittore! Che poi cosa ti darà mai da vivere il mestiere dello scrittore, deve essere così noioso starsene riversi su una macchina da scrivere, cosa ci avrà mai trovato di così bello nei libri?>> disse poggiando la testa sulla sua spalla.

Sandra abbassò gli occhiali e la ammonì: <<Stai scherzando vero? I libri possono cambiarti la vita, in alcuni casi totalmente, sono i tuoi migliori amici e non ti abbandonano mai, rispetto a un uomo. I libri rappresentano la sottilissima linea che c’è tra la disperazione e la vita quotidiana. In ogni pagina ricerchiamo una parte di noi stessi, qualcosa che leggendo ci faccia pensare: ‘Accidenti, sembra quasi stia parlando di me’, pur sapendo che è solo un’illusione. Nessun libro parla del lettore, al contrario, può dire molto sull’autore. Una volta ho letto una cosa che secondo me è vera: Quando arriva il successo per uno scrittore inglese, questi si procura una nuova macchina da scrivere. Quando il successo arriva per uno scrittore americano, si procura una nuova moglie. Comunque la macchina da scrivere è roba da matusa, userà sicuramente il computer portatile!>>

Patricia resistette dal rispondere apertamente a quella affermazione.

Prese dal mucchio un vecchio libro di Magda Szabò, “La porta”, ispezionando l’ultima pagina.

“I miei sogni solo assolutamente uguali, tessuti di visioni ricorrenti. Sogno sempre la stessa cosa, sono in piedi, in fondo alle nostre scale, nell’androne, mi trovo sul lato interno del portone con il telaio d’acciaio, il vetro infrangibile rinforzato di tessuto metallico, e cerco di aprirlo. Fuori, in strada, si è fermata un’ambulanza, attraverso il vetro intravedo le silhouette iridescenti degli infermieri, hanno volti gonfi, innaturalmente grandi, contornati da un alone come la luna.

La chiave gira. Ma i miei sforzi sono vani.”

<<Uno, due tre, quattro, cinque…>>

<<Hai trovato qualcosa di interessante, vedo. Che cos’è?>>

<<34 righe. Mh.. questo si intitola “La porta”, l’autrice è ungherese. Credo che dovrei rimangiarmi la mia opinione riguardo ai libri e agli autori. Leggendo queste parole sembrava quasi stesse parlando di me.>>

<<Ma sai bene che gli scrittori si dice anche che possano essere dei traditori. La fantasia è pur sempre parte di un inganno, riservata unicamente agli esseri umani.>>

John era effettivamente inglese, ma non un traditore. Lui non l’avrebbe mai tradita, glielo aveva promesso sotto quell’incessante pioggia di Bankside, lontani dal mondo che poteva sentirli. Non le riusciva possibile credere che un libro potesse essere meglio di una donna che ogni notte ti stringe a sé, si fa scopare bene, vive solo in funzione del suo rapporto amoroso e pensa, prima ancora di parlare.

 

Estratto dall’ultimo romanzo dell’autrice Letizia Turrà

PHOTO: http://www.inspiringwallpapers.net/

Di invidia si muore più che di infarto – La mia personale dedica agli invidiosi!

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L’invidia è quel sentimento che nasce nell’istante in cui ci si assume la consapevolezza di essere dei falliti. O. Wilde

Ci avete mai fatto caso a quante persone tra quelle che conoscete si complimentano con voi per il vostro successo o magari perché fate una cosa che vi appaga meglio di molti altri o, addirittura, meglio di loro? POCHE.

Soprattutto nei Social Network vi sono pochissime persone che si soffermano a leggere, alcuni neppure aprono i vostri link, altre volte ancora aprono, spiano, guardano, indagano, passano anche ore a guardare le vostre foto e tutto quel che vi riguarda, senza neppure mettere un “MI PIACE”.

Perché – mi chiedo – fanno così tanta fatica a dimostrarsi entusiasti se qualcosa di bello accade anche agli altri???

Io sono un tantino stufa degli ignavi, di quei fantasmi che scopiazzano link predefiniti, che non mettono mai un loro pensiero, che postano 800 foto delle loro vacanze (come se uno si mettesse mai a guardarle tutte!), di quelli che stanno a tavola a mangiare e postano solo la foto, senza neppure un singolo pensiero fuoriuscente dai loro neuroni…

Non reputo che Facebook o altri Social siano un territorio fatto di persone asociali, così terribilmente attaccate all’estetica, alla sessualità, alle mode e alla bella vita da mostrare a tutti i costi…

Ho conosciuto anche persone che aldilà della rete sono fatte di emotività. Eppure, sembrano volere nascondere quella parte tanto essenziale di loro, quella (appunto) emotiva.

Vi dirò che vi sono giorni in cui mi sento una schifezza, non mi piaccio, non sembro neppure quella donna tanto sicura e tenace che sono sempre stata. Sono quelli i momenti in cui scrivo e parlo davvero agli altri a cuore aperto.

Per contro, trovo spesso persone che invece se possono abbattermi in quei momenti non si fanno alcun problema, e se  hanno l’opportunità di dire una frase cattiva, la usano senza porsi problemi.

Visito diversi siti o blog di scrittura come il mio, e devo dire onestamente che non ho mai trovato ridicolizzabile o inappropriato il lavoro di un altro scrittore.

Non c’è esagerazione, depauperamento, mancanza di bellezza in quanto qualcuno che ha investito le proprie energie e forze ha scritto, perché si tratta del tempo e dei sentimenti di un’altra persona, che non dovrebbero mai essere sottoposti a severo giudizio, poiché nessuno di noi ama essere giudicato con la noncuranza con la quale di solito viene sprigionato il parere di “ogni esperto” di Facebook o che incontriamo per strada.

Io dico NO AGLI INVIDIOSI, AGLI INSIDIOSI, A QUELLI CHE CERCANO DI DISTRUGGERE QUANTO STATE COSTRUENDO.

Chi se ne importa se pensano qualcosa di differente da noi, chi non ce l’ha fatta non dovrebbe cercare di spezzare le gambe a chi ce la sta facendo.

Perché l’illusione degli invidiosi è che quello che possedete in realtà vi sia stato regalato, non concepiscono che esista una meritocrazia/capacità dietro ad ogni singolo gesto, e che anche voi possiate avere paura, bisogno di coccole e sostegno, momenti “delicati”.

E’ l’inadempienza di chi non sa andare oltre il vostro sorriso, di chi non sarà mai portato a pensare che dietro quella maschera vi è la sofferenza e la voglia di vedere riconosciuto il proprio operato.

Io voglio vincere su questa ipocrisia, voglio poter continuare a volare senza la paura che qualcuno arrivi a spezzare le mie ali.

Di invidia si muore più che di infarto – dice un detto su Internet – ma la cosa più bella è che quando smettiamo di invidiare e di preoccuparci del giudizio altrui, allora diventiamo QUALCUNO.

Prima di allora, saremo solo IGNAVI. Andate a cercare questo termine nella Divina Commedia, un minimo di conoscenza prima di giudicare non farebbe male a nessuno!

A presto,

Letizia T.

L’uomo misterioso -Capitolo Settimo

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La mia prima volta era stata con un uomo misterioso, ma che era sempre stato nei miei sogni ed ora i miei sogni si erano realizzati trasformandosi in passione folle.

Fu così intenso che mi sembrò passassero delle ore prima di poter urlare:<<Sto venendo!>> portando così a termine quella sensazione meravigliosa consumata in un bagno solo pochi giorni prima pensando a lui.

Non ero più vergine.

Questa è una di quelle cose che si corre subito dalle amiche a raccontare, ma per me non fu così, volevo tenerla per me, come un prezioso tesoro di cui avere cura e sigillare quell’attimo, come se potesse durare per sempre.

E poi oltre a Maria Antonietta non è che avessi uno stuolo di amiche su cui poter contare.

Ancora non lo sapevo, ma quell’uomo avrebbe cambiato per sempre il corso delle cose.

Quello che mi colpiva era la straordinaria naturalezza con cui il nostro atto sessuale partiva dapprima da uno sguardo, si concentrava sui respiri e sui battiti agitati nei nostri petti, per finire infine in un mare di emozioni che sembravano assomigliare ad una diga che cede sommergendo tutto quello che la circonda.

<<Ora sei tu che dovresti raccontarmi qualcosa di te>>, gli dissi.

<<Ok hai a disposizione una vita intera per stare qui sdraiata vicino a me a sentire la mia triste storia? Sono nato in una famiglia di ebrei americani, i miei famigliari come ti dicevo sono tutti artisti così come i miei genitori che erano attori teatrali e che giravano di Città in Città sempre con la valigia dietro, ed io con loro.

Avevamo tutta la vita programmata, io sono sempre stato così programmato in tutto, gli appuntamenti infatti non me li ricorda il mio agente, ho una preziosa agenda dove segno ogni evento e mi piace essere autonomo il più possibile, sono stato educato così. Comunque decido che il teatro non fa per me, fin da bambino ho sempre amato scrivere, avevo solo otto anni quando iniziai a scrivere piccoli racconti fiabeschi, storie di maghi e di fate. Col tempo poi decisi di trattare argomenti più complessi, quando la mia vita diventò anch’essa più programmata di me. Anche mia moglie fu una scelta programmata.>>

Sussultai.

<<Tua moglie?? Come, sei sposato?>>

<<Sì te l’ho già detto con Sara, anche se solo per tre anni. Così volle la mia famiglia, lei era ebrea come noi ed era nipote di un facoltoso petroliere che aveva investito molto nel loro spettacolo pur di combinare le cose tra di noi. So che può sembrare crudele, ma dalle nostre parti funziona anche così e nessuno si scompone. La mia fortuna fu che io amavo Sara, la amai dal primo istante in cui la vidi ballare, era un etoile e ballava divinamente. Io ero ancora agli inizi, i miei libri non andavano neppure forte ma lei credeva fermamente in me e mi sosteneva in tutto. Tentammo anche di avere un bambino, ed alla fine decidemmo che avremmo voluto vederlo nascere e crescere nella nostra amata Parigi, la nostra Città dei sogni. Passammo un periodo molto felice, nessun pensiero ci assillava, non avevamo problemi di nessun genere, neppure economici. La casa a Parigi ci era stata regalata e pagata interamente da suo padre, solo questa cosa mi stava un po’ stretta.>>

Silenzio.

<<E poi?>>

<<E poi accadde che un giorno mi contattò un editore, non parlavo ancora molto bene il Francese, quindi le chiesi di venire con me per aiutarmi nella mediazione, non volevo beccare qualche fregatura visto che si trattava del mio esordio. Così ci incamminammo, la giornata era caldissima. Sara ebbe un malore ma poco dopo si riprese subito, quindi non abbiamo dato molta importanza all’avvenimento, poteva essere stato un calo di pressione. Di notte le sue condizioni peggiorarono nettamente, le venne la febbre a 42 e quando la portai in ospedale era ormai troppo tardi. In breve cadde in coma. Io ero incredulo di fronte a tutta la situazione, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, rischiavo di impazzire da quanto mi sentivo impotente. Morì qualche ora dopo per setticemia, era incinta e la gravidanza extrauterina le aveva causato un’infezione alla quale il suo esile corpo finì per soccombere. Sono passati 6 anni, sembra ieri, lei aveva in grembo nostro figlio, lui l’aveva abbandonata ancora prima che lei abbandonasse me. Non è stato facile riprendere in mano la mia vita da allora, mi sono buttato a capo fitto nella scrittura partecipando solo agli eventi che riguardavano i miei libri ed isolandomi dal resto del mondo. Per i miei fu anche più dura, loro la adoravano, mio padre morì stroncato da un infarto, mia madre si ammalò di depressione e morì qualche anno dopo. Non so se è da ricollegarsi a quell’evento, ma sicuramente cambiò la vita di tutti noi. E ora mi ritrovo qui, solo, a 35 anni con una bellissima ragazza che è un sogno.>>

Non riuscii a trattenere le lacrime.

Era stato così toccante nella descrizione che decisi che mi sarei fermata al suo fianco, lì vicino a lui e alle sue forti braccia, stretta forte a lui, e gli avrei curato le ferite.

Mi sentivo quasi di troppo in quella circostanza tra lui e lei.

Ma cercai di guardare aldilà del muro che sembrava separare le nostre storie, e ora sapevo finalmente anche quanti anni aveva.

“Aldilà del muro -Diario e confessioni di una Escort” di Letizia Turrà

Photo: Google

Il legame che può esistere tra una persona e una canzone.

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Capitolo primo

“Way down Louisiana close to New Orleans, way back up in the woods among the evergreens…”.

Spegne la radio. Spegne la sigaretta.

Da un po’ di tempo ha anche iniziato a fumare, dapprima per darsi un tono, poi col tempo, anche quella si è trasformata in un’abitudine da cui è divenuto difficile separarsi.

Per un’intera settimana il volto di Milano è stato uggioso, la pioggia non ha mai cessato di battere sui marciapiedi e questo brano sembra essere l’unico raggio di sole che filtra nella sua stanza buia.

Sul tavolino un bicchiere d’acqua mezzo pieno, un flacone degli inseparabili tranquillanti, quel famoso libro di William Shakespeare.

Ascolta quella canzone consapevole del legame che c’è tra lei ed essa. E’ strambo pensare che ci sia un legame tra una persona e un brano musicale, ma è così.

Tutto merito del luogo da cui proviene, tutta colpa di suo padre: amante di Chuck Berry e della musica  Soul in

generale, Richard Backer è General Manager di un’industria farmaceutica di origini irlandesi cresciuto in Florida. Sua madre Margareth, nata e cresciuta fino all’età 17 anni a New Orleans, è una casalinga tutta casa e chiesa, puntigliosa e taciturna in quasi tutte le occasioni, tranne che durante le manifestazioni parrocchiali, fa parte infatti del gruppo della parrocchia di East Baton Rouge, da anni combatte ardentemente per la raccolta fondi e per la riunificazione delle comunità dei ragazzi di colore.

Ecco perché lei si chiama così.

Nonostante nessun problema in apparenza, Louisiana si sentiva oppressa all’interno del nucleo famigliare e da quel luogo dove era nata e cresciuta. I soldi nella loro casa non erano mai mancati ma il prezzo da pagare era stata la totale assenza della figura paterna nella sua vita.

La madre le aveva imposto un indottrinamento religioso ossessivo che l’aveva portata ad avere repulsione della religione e di Dio, come conseguenza.

Riteneva infatti che non potesse esistere un Dio superiore che ci aveva creati “a sua immagine e somiglianza”, ma che piuttosto eravamo frutto di un’energia proveniente da chissà dove e tutti gli eventi che si verificarono intorno a lei (come l’arrivo dell’uragano), le fecero pensare sempre di più che aveva ragione.

“Una spiritualità che va oltre la religiosità imposta da mia madre, che mi scava la pelle arrivando fino al mio sangue. Una spiritualità forte come il legame che ho sempre avuto con il sesso ma che gestisco con opportuno riserbo, che bagna i miei occhi di lacrime e mi fa intravedere quel ritorno all’illuminazione, alla luce forte che staziona in ognuno di noi. Avrei voluto godere di quella normalità e quella pace a lungo ricercata, ma non vi è mai stato modo per me di mantenerla sempre lì costante, tanta era la voglia della pace di rifugiarsi in un luogo misterioso dove nessuno avrebbe mai potuto scovarla”.

Ormai Louisiana vive a Milano da quattro anni, è una studentessa di 23 anni, dai capelli mori e ricci, alta carismatica e dai grandi occhi.

E’ bella lei, talmente bella che non ha bisogno di mettere abiti che la rendano appariscente, gli uomini la noterebbero comunque. Non ha amici, tranne una compagna di stanza con la quale condivide un grande affetto e una grande stima.

Questa è la storia in cui si narra la mia vita.

Sarà raccontata senza ipocrisia e senza ritocchi fantasiosi nè riassunti, perché quando si parla della vita delle persone non si può ridurre tutto a due minuti di riassunzione degli eventi, ogni vita merita rispetto e il mio unico dovere sarà quello di raccontarvela, per quanto possibile, interamente.

Se pensate che leggendo questo racconto vi sentirete più leggeri o saprete quello che fa una studentessa tutti i giorni dal mattino fino alla sera come fosse una sorta di diario giornaliero, allora vi consiglio di cambiare libro.

Questa è una storia seria, piena di sentimento, e rappresenta la vita di una donna che ha davvero amato, oltre ogni aspettativa: me stessa.

Stralcio Capitolo primo tratto da “Aldilà del muro- Diario e confessioni di una Escort”  di Letizia Turrà

Photo: Google

Un bacio innocente e dolce come il miele

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Io e Cesare a quel punto lasciammo Francis alla sua malinconia e uscimmo in giardino per proseguire con i nostri giochi.

-“Lo sai Cesare, ho paura di essere incinta.”

Mi guardò incredulo.

-“Incinta? Ma come cavolo fai a dirlo?”

-“Mi fa male la pancia, ecco tutto. Un dolore così forte non l’ho mai avuto, quindi credo di aspettare un bambino.”

Si avvicinò alla mia faccia, scrutando seriamente e attentamente le mie pupille.

-“Non credo tu lo sia, quando una donna è incinta le pupille sono arrossate e gli occhi si sbarrano.”

-“Ignorante – gli dissi – quello accade solo quando una donna sta partorendo!”

-“Allora se io sono ignorante come è possibile che tu non sappia che un mal di pancia non può significare che aspetti un bambino?? Hai mai baciato un ragazzo? Mi hanno detto che così forse si rimane incinta.”

Ci pensai un po’ su, anche se non mi sembrava credibile.

-“No, non ho mai baciato nessuno, mi imbarazza anche solo pensarci, e comunque ne sono certa, non si resta incinta per un semplice bacio.”

Mi tirò per una mano e mi portò dentro casa, in biblioteca.

-“Scegli un libro a caso adesso, voglio farti sentire una cosa.”

Lo guardai indispettita, non capivo cosa avesse in mente, ma mi fidavo di Cesare, quindi presi il libro della favola di Hansel e Gretel, un gran bel volume alto contenente la favola in diverse lingue.

-“Ora mettilo per terra e salici sopra.”, disse.

Così feci. A quel punto si avvicinò con la sua testa alla mia, e mi diede un bacio, tenero e innocente, così spontaneo che mi sembrò la cosa più dolce mai provata.

Divenni rossa in un lampo. Non era stato un vero e proprio bacio, ma uno a stampo, che bastò a farmi battere il cuore.

Al termine mi guardò.

-“Allora come ti senti? Ti è piaciuto?”

Sorrisi: “Sì, è stato tenero.”

Con tono rassicurante aggiunse: “Bene, staremo a vedere che succede. Se tra qualche giorno il tuo dolore sarà passato, significa che non sei incinta.”

Rimasi piacevolmente sorpresa da quel suo modo di alleviare il mio dolore, con la tenerezza di un bacio innocente e dolce come il miele.

Tratto da “Il labirinto di orchidee -Niente è come sembra” di Letizia Turrà

Photo: Google

Blogger at Work – “Lush” e la cosmesi naturale a Milano

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Entrare in un luogo e sentirsi come a casa.

Questo è ciò che mi aspetto quando visito o entro in un posto, sia esso una dimora o, come in questo caso, uno spazio riservato ai profumi avvolgenti e alla cosmetica naturale, come casa “Lush”.

Siccome da molti anni non mi occupo più di bellezza, lascio che la mia amica e collega Vale, in qualità di fashion Blogger, mi porti in giro a fare danni!

Così ci siamo imbattute nel negozio Lush di Via Torino, a Milano.

Lush è un’azienda con una filosofia legata alla terra, nel senso letterale della parola, compone prodotti naturali, alcuni dei quali prevedono l’esclusione di SLS, SLES e Parabeni.

Abbiamo avuto la possibilità, in qualità di Blogger, di provare alcuni prodotti fra cui la gelatina da doccia “Needles and Pines”, un gel doccia con olio di cedro siberiano che a contatto con la pelle sembra un budino solidificato, e la saponetta “Sambuco”, al ribes nero e Sambuco.

Il risultato è stato meraviglioso, la pelle era morbida al tatto, delicatamente profumata e luminosa.

Inoltre le ragazze che accolgono i passanti curiosi e i clienti fidelizzati del negozio (piccolo ma ricco di dettagli e messaggi positivi), sono preparate e competenti su ciascun prodotto che viene proposto.

La filosofia principale è quella di lavorare in laboratorio senza l’impiego di animali per i test nella fase di produzione i prodotti, grazie a persone che lottano per preservare la loro vita, come la dottoressa Carol Barker, vincitrice del Lush Prize 2013 e fondatrice dei laboratori XCELLR8, che sostiene sia possibile una creazione cosmetica escludendo i test sugli animali, agendo sullo studio diretto dell’uomo e delle sue patologie.

La proposta cosmetica non è solo rivolta alle donne, ma anche agli uomini. Vista la tendenza dell’ultimo anno di portare la barba, è stata creata anche una linea di saponi per barba e baffi, molto apprezzata dal pubblico maschile, ormai sempre più attento alla bellezza.

Anche le creme viso sono create basandosi su spezie naturali, componenti legati alla nostra amata terra, come le maschere viso all’aglio.

Le ragazze affabilissime e gentili ci hanno anche omaggiato di saponi per la pelle, così belli e buoni che avremmo voluto mangiarli.

Vi invito a visitare gli Store Lush, non vi dispiacerà esserci entrati, ve lo assicuro ed è anche un’ottima occasione per donare benessere anche agli altri, non solo a se stessi!

Ci rivedremo presto amici di Lush!

Letizia T.

SITO: https://www.lush.it/

Vola l’aquilone….

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Per non dimenticare quella esperienza tanto bella insieme, costruimmo un aquilone perché il vento del mare era perfetto per farlo volare.

Il nonno ci accompagnò sulla spiaggia e stette ad assistere a tutta la scena, anche se in disparte, con le gambe distese l’una sull’altra ed il cappello sopra gli occhiali.

Cesare prese la rincorsa forte ed io tenevo il conto dei passi, cronometrando il momento in cui avrebbe preso il volo. Era difficile mantenere l’equilibrio su quei sassi tanto spigolosi e grandi, ma Cesare ci riuscì e l’aquilone iniziò a volare e a volteggiare.

-“Nonno! Guarda!! L’aquilone vola, ce l’abbiamo fatta!”, dissi emozionata.

Il nonno non rispose.

-“Nonno ma mi stai ascoltando, guarda il nostro aquilone!”

-“Oh Laura, non ora, lasciami sognare in pace.”

Capii che era pensieroso per qualcosa, anche se non sapevo con esattezza cosa lo turbasse.

Capii che per “sognare” voleva intendere che quello era per lui un momento di beatitudine, in cui finalmente godeva del presente senza pensare a tutte quelle cose complicate che aleggiano nella mente dell’adulto.

Finalmente era in pace.

Ed anche io lo ero. Guardavo felice Cesare, che teneva stretto il filo dell’aquilone. Lo guardavo e mi commossi al pensiero che quella bellezza non era destinata a durare per sempre. In un dato momento si sarebbe interrotta, per tornare alla realtà.

Aprii le braccia e mi distesi come una farfalla sulla sabbia, lasciando che l’acqua entrasse dentro di me e guardando il cielo, azzurro e pulito.

Passammo lì pochi giorni sfortunatamente, nonno Francis cominciava a non stare molto bene.

Da “Il labirinto di orchidee – Niente è come sembra” di Letizia Turrà

Photo: Google

VOCE DEL VERBO “PERDERE”

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E’ un giorno qualunque. O forse no.

Ho deciso di sedermi sulla panchina della metropolitana e stare ad osservare almeno una decina di treni passare, così, come se li stessi per perdere.

E’ tutto l’anno che non sento altro che quella parola: “Perdere”.

Che poi perdere cos’è esattamente?

Quanta importanza può avere perdere qualcosa, e quanta invece può averne perdere qualcuno…

La differenza sembra sottile, ma non lo è.

Allora mi sono fermata, ho stiracchiato la schiena, ho osservato le luci al neon vecchie e sporche ed ho pensato a tutto quello che ho perso nel corso del tempo.

Che cosa non ha funzionato?

Perchè vincere è tanto più importante che perdere?

Quando ad esempio si dice “Ho perso mia madre”, oppure “Ho perso un’occasione”, cosa davvero dovremmo ritenere di aver perso?

Il primo avvenimento ha lasciato un vuoto incolmabile, il secondo ci darà la possibilità di riscattarci, invitandoci a cercare un’alternativa.

E’ dalle cose, persone e occasioni che ho perso, che ho davvero imparato che ogni dolore si sviluppa dentro di noi in modo del tutto differente in base alle nostre priorità, e che non tutte le perdite rappresenteranno necessariamente una sconfitta.

Ho perso un sacco di occasioni. La settimana scorsa avrei dovuto iniziare a scrivere per una rivista, il mio sogno da sempre. Poi, una serie di telefonate inconcludenti e non se n’è fatto niente.

Se mi pento?

<<Chi cazzo se ne frega!>>, penso.

E’ un giorno qualunque, o forse no, perchè oggi ho davvero compreso che non sono le occasioni lavorative o temporali a contare, ma la salute e la vita di coloro che ami.

E certe cose non le do più per scontate.

Tengo preziosi questi dieci minuti trascorsi a guardare quei treni;

Sono ben consapevole che quest’oggi, e quello che sono oggi, non tornerà.

A presto,

Letizia T.

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Le scelte che si fanno con la ragione e quelle che si fanno col cuore…

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-“Ho deciso di iscrivermi all’Università, che ne pensi?”, mi disse Cesare un mercoledì mentre pranzavamo in centro.

-“E’ una splendida idea direi, perché me lo chiedi, non era già previsto che tu proseguissi negli studi di filosofia?”

-“Bè, la realtà è che vorrei farlo, ma non qui, volevo iscrivermi all’Università di Pavia.”

Il cibo mi andò di traverso: “Vuoi scherzare? Pavia? E’ così lontano! Non essere ridicolo Cesare! Cos’è l’ultima follia del principino?”

Mi guardò deluso.

-“Dico sul serio e sai anche un’altra cosa? Tu verrai con me in questo viaggio, ti voglio al mio fianco, qualunque sarà la mia scelta.”

Non mi entusiasmava affatto l’idea di seguirlo in quella che per me era una scemenza, soprattutto non volevo seguirlo neppure così lontano.

Ad ogni modo, partii con lui, lo feci proprio per il suo bene, perché sapevo che era ciò che desiderava.

Non era fatto come me, Cesare sceglieva con la ragione e raramente col cuore, rischiando di imbarcarsi in esperienze poco sicure.

Durante il viaggio in treno, mi teneva stretta la mano, felice che condividessi con lui quella nuova esperienza.

Arrivati a Pavia, ci imbattemmo in una cittadina interessante, ricca di monumenti risalenti al tempo degli antichi Romani, particolarmente ricca di locali e di gente di ogni nazionalità, turisti e passeggeri di viaggio, alcuni tra i quali avevano scelto di restare lì per viverci.

Entrammo all’Università per vederla da vicino. All’interno più stanze e corridoi che in un labirinto, aveva quasi l’aria di un manicomio in stato di abbandono, un posto che si lascia ma che non si dimentica, come tutte le cose lasciate lì ad essere divorate dal tempo.

Un cortile quadrato con le statue dei famosi rettori atte a commemorarli faceva da cornice iniziale ai visitatori curiosi, come lo eravamo noi.

Guardavo le statue e in contemporanea il terreno. Le radici puntavano ai piedi come rovi violenti, come punte di un ago, le statue da bianche erano ora diventate oscuri rifugi per i piccioni, effigi a ricordare l’onore dovuto a quegli uomini che tanto si erano adoperati per la medicina e la cultura generale, per gli studi glottologici, economia, politica e scienza delle finanze, storia del diritto romano, letteratura.

Infinite statue e grate, finestre dalle quali aleggiava aria di studi, ragazzi, studenti, con la mente carica di obiettivi e sogni.

Mi strinsi forte al suo fianco.

-“Sei davvero sicuro di voler venire qui a studiare? Vuoi finire come quelle statue piene di cacca di piccione sulla testa? Guarda che tristezza, poca cura e negligenza.”

Si voltò di 180 gradi guardandomi dritto negli occhi.

-“Sai cosa diceva sempre il nonno Francis? Nessun vento può essere favorevole se il marinaio non sa dove andare. Direi che è giunta l’ora che io decida dove voglio investire le mie energie.”

Sospirai senza aggiungere altro. Sapevo bene che vi sono momenti in cui aggiungere anche solo una sillaba superflua a un dialogo importante, rischia di bruciare le emozioni autentiche in anticipo, e non volevo lui avesse l’impressione che a causa della mia disapprovazione io mancassi di rispetto alle sue sensazioni.

Tratto da “Il labirinto di orchidee – Niente è come sembra” di Letizia Turrà

Photo: Google

L’inaudita crudeltà dell’uomo che si ama

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Mentre guidavo una musica raggiunse il mio cuore.

Era quella del cantante che sentii per la prima volta a casa di Giorgio, quando lo conobbi:“Comincia a ingiallirsi il nero del livido, non è più così tanto nitido e da oggi il dolore ritorna semplicemente sottocutaneo; ho lavato nel lago lo spirito e nel farlo il tuo corpo ha finito per essermi estraneo, è un periodo pieno di sorprese e non si contano più le offese, che per decenza mi rimangerei, ma ero stanco di sentirmi come uno straccio sotto ai tuoi piedi, mi sarebbe esploso il cuore prima o poi, in quale labirinto se non c’è uscita o speranza di evadere…

Esplosi piangendo disperatamente, sembrava parlasse proprio di me.

E’ quello il potere della musica: emoziona ma non mantiene le promesse fatte.

Tornai a casa e trovai Giorgio seduto al tavolo che guardava il mio computer.

Aveva nel frattempo letto ogni mia chat, ogni messaggio, spiato le foto, il profilo mio e dei miei amici. Tutto. Sapeva tutto.

-“Ciao Laura, ti stavo aspettando.”

-“Ah sì? E come mai?”

Mi diede uno schiaffo gettandomi a terra e riempiendomi di calci allo stomaco prese a urlarmi contro: “E così mentre io vado a lavorare, tu organizzi le tresche con il tuo ex, non è così? Maledetta stronza, maledetta, ti ammazzo, ti pentirai di questo giorno!”

Iniziai a sputare sangue.

Mi caricò allora sulle spalle. Mi portò in camera da letto e mi legò con lo spago da cucina i polsi alla testiera in ferro battuto.

Si spogliò e pose davanti al mio viso il suo membro in erezione.

Con violenza mi costrinse ad un rapporto anale, doloroso e torturante, tenendomi avviluppata a lui perché non mi opponessi.

Al termine, mi impose anche un rapporto orale, mentre per il dolore allo stomaco gemevo stremata.

-“Così sgualdrina, così, ahhhhhhh.”

Ero arrivata a toccare il fondo.

Ebbi la certezza che non sarei mai più risalita in superficie, neppure con la più grande forza di volontà si potesse mai possedere.

Lo guardai con rabbia e in quel momento fui consapevole che non mi avesse mai davvero amata.Per lui io rappresentavo solo un oggetto del desiderio, qualcosa da dominare.

Da “Il labirinto di orchidee – Niente è come sembra” di Letizia Turrà

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