
Mi siedo sulla poltrona, è il momento che preferisco della giornata, quello in cui posso togliermi le scarpe, buttare per terra la giacca, lasciar scivolare via i pensieri e mettere un cd nel mio lettore, con dell’ottima musica.
In questi casi non scelgo mai un disco qualsiasi, come quelli che si scaricano. Io desidero e voglio che esso sia speciale, che mi porti lontano; che serva a comunicarmi che esisto e che quella musica mi proteggerà in qualche modo da ciò che ho subito durante la giornata.
Tengo premuto il tasto Play, track n° 1, e il gioco è fatto.
Vengo rapita dal suono doppiato di una batteria e una tastiera. Il mood lento e ripetitivo, mi riporta quasi come nel grembo materno.
Una voce calda e struggente giunge 29 secondi dopo, trascinandomi.
E’ quella di un uomo di 44 anni, che con voce roca, avvolgente e una pronuncia netta, ti spiega cosa significhi per lui cantare.
E’ la voce di Bruce Springsteen, l’anno è il 1993, la canzone in questione è “Streets of Philadelphia”.
Il 25 agosto di quest’anno il suo “Born to run” ha compiuto 40 anni.
Rifletto su quel mitico 1993, mi rendo conto che sono trascorsi velocemente 22 anni, che non hanno spento la stella di Bruce, né la sua incomparabile energia che ancora oggi lo vede esibirsi con successo in estenuanti concerti in tutto il mondo (nel 1978 raggiunse 115 concerti in un anno), e che gli sono valsi il famoso appellativo di “The Boss”.
Primogenito di tre figli, nasce a Long Branch, un comune degli Stati Uniti d’America, nella Contea di Monmouth, nello Stato del New Jersey, il 23 settembre 1949, da padre di origini irlandesi e olandesi e madre italiana.
Il padre sarà una figura contrastante nella vita di Bruce, il conflitto tra i due sarà forte e i dibattiti accesi, forse per via del precariato dell’uomo, alla continua ricerca dei lavori più disparati, mentre la madre lavora come impiegata in uno studio legale.
Il suo primo incontro con la musica avviene poco prima del compimento dei suoi 7 anni, quando vede per la prima volta lo straordinario Elvis Presley all’Ed Sullivan Show, una trasmissione a quei tempi diventata istituzione in America.
Deciso a voler diventare come il suo beniamino, chiede ed ottiene in dono per Natale la sua prima chitarra giocattolo.
Due anni più tardi la sua passione viene interrotta dalle sue mani troppo piccole, che non gli permettono di suonare efficacemente uno strumento vero, preso in affitto da sua madre, nella speranza che quel ragazzo le dimostri che fa sul serio con la musica.
A 17 anni Bruce sceglie quale sarà il suo percorso, vuole suonare e vuole farlo bene, perfezionandosi nella tecnica. Acquista così una chitarra acustica al prezzo di 18 dollari, grazie ai piccoli lavoretti svolti nel quartiere.
Sua madre decide di premiare quell’impegno profuso con tanta dedizione. Con molti sacrifici e un prestito, riesce a comprare al figlio una chitarra elettrica Kent e un amplificatore.
Il ragazzo amerà quel dono al punto da dedicare a quella chitarra la sua “The Wish”.
Bruce trova ispirazione nel mondo circostante e nelle musiche trasmesse alla radio, dai Beatles agli Animals, dai Rolling Stones agli Who.
Capisce che è del rock che è innamorato, seppure la sua musica verrà influenzata dai differenti sound.
Dopo molta solitudine trascorsa nelle quattro mura al fine di migliorare la sua tecnica, fonda il suo primo gruppo, con il quale la collaborazione si interrompe dopo breve tempo.
Dopo vari tentativi, il 10 luglio del 1971 Bruce fonda la “E Street band”, formata da Gary Tallent al basso, Van Zandt all’armonica, Vini Lopez alla batteria, David Sincious alle tastiere e Bruce alla chitarra.
Riesce ad ottenere un’audizione con Mike Appel e Jim Cretecos, due parolieri dell’epoca, ma il provino sarà un buco nell’acqua.
La seconda possibilità si ripresenta nella primavera successiva con John Hammond, un abile talent scout, che concede a Bruce l’opportunità di incidere alcune demo.
La formazione della band si consoliderà definitivamente nel 1974. Quello stesso anno conosce Jon Landau, critico del Rolling Stones, che di lui al termine di un concerto scrive: “Ho visto il futuro del rock’n roll e il suo nome è Bruce Springsteen. In una sera in cui avevo bisogno di sentirmi giovane, lui mi ha fatto sentire come se ascoltassi musica per la primissima volta”.
Quella critica aveva fatto centro, facendo apprezzare al pubblico le doti di autore e leader del “Boss”.
Le sue composizioni migliorarono in profondità e ricchezza dei contenuti, al punto che egli finì per essere considerato un poeta col chiaro intento di risvegliare le coscienze sociali dei creduloni ancorati al sogno americano. In merito a questo, infatti, confermerà: “La mia musica ha sempre voluto misurare la distanza tra la realtà e il sogno americano”.
Con la religione manterrà un rapporto distaccato e da osservatore, tipico dei poeti, schivi e riflessivi.
Questo arricchimento interiore lo porta a rivalutare l’idea di agire anche da solo, al di fuori della band, mettendo in mostra nei suoi testi molte delle difficoltà e peripezie che ha dovuto affrontare anche a causa di una vita matrimoniale sull’orlo del fallimento, e del rapporto difficile con la figura paterna.
Non può fare a meno di rimanere colpito dai fatti di cronaca che avvengono nel mondo, per cui esprime un pensiero solo esclusivamente attraverso le sue canzoni. Il giorno dopo l’attentato alle Twin Towers di Manhattan, Bruce si reca su una spiaggia di New Jersey per vederne il panorama deturpato. Un uomo lo vede e gli urla: “Ehi, abbiamo bisogno di te!”
Per lui è la riconferma che nulla accade per caso, e che un’artista, che ha un dono come il suo, lo deve utilizzare per aiutare gli altri, perché dovunque siano morti degli uomini, in precedenza c’era vita.
Egli sa bene che quegli uomini, come molti altri, sono morti per vedere il loro sogno americano infrangersi.
Bruce, così bello e tonico sul palco, così grintoso, un uomo che sembra insormontabile, ma che io, attraverso la sua voce, riesco invece a percepire come tenero e bisognoso di una parola, quella stessa parola che lui ha donato agli altri, narrando le loro storie.
E’ questo che fa un artista, dona anima e produce sentimento dal palmo della mano che scrive, certo che il suo messaggio, in un modo o in un altro, giungerà a destinazione.
Ora che la musica è terminata e la giornata volge al termine, mi chiedo ancora se il pezzo successivo sarà in grado di entrarmi nelle vene come questo appena sfumato.
So bene che la risposta è no, perché ogni opera è unica e ognuna ti farà sentire in modo diverso.
Potrei schiacciare “Rewind” e ricominciare daccapo.
Forse lo farò, siederò e aspetterò di nuovo l’arrivo di quei 29 secondi, ritornando al grembo materno.
A presto,
Letizia Turrà
Photo: Google