SICURO PRECARIATO – “Ti spiacerebbe passarmi del sale?”

CRISI DI COPPIA: COM'E' POTUTO SUCCEDERE?

Le conversazioni diventano stereotipate, e il silenzio si fa sempre più assordante.

Guardi fuori dalla finestra. Guardi il piatto, poi il gatto che gironzola libero e indipendente (non lo avresti mai detto, ma provi per lui un’insana invidia). Infine guardi la porta dalla quale vorresti uscire subito, senza pensarci troppo, lasciando il piatto sul tavolo senza più il pensiero che dovresti riporlo nel lavandino, prima.

Invece resti seduto, a svolgere il tuo incarico a termine per un tempo che neppure tu stesso conosci. Sai solo che tua madre li chiamava doveri e quindi tu, da bravo bambino, resterai seduto e tollererai, come faceva tuo padre o come faceva tua madre.

Sei un cazzo di precario, e questo lo sai. Un precario senza dimora fissa nella testa, e un lavoro incerto sotto il culo, che per te è diventato tutto.

Il lavoro rappresenta l’evasione di cui tanto hai bisogno; come l’evasione da quel tavolo a cui stai pensando come un tamburo martellante. Sei seduto a una tavola rotonda, senza gerarchia, eppure tu sai chi è che comanda. C’è sempre chi possiede un po’ di più dell’altro, in un rapporto. Fosse anche solo il cuore, tu sai che è così.

Non appartieni più a quel tavolo e odi quella tovaglia che non hai scelto tu, che fa scivolare il bicchiere bagnato in inverno e ti si appiccica alle gambe d’estate, quando sei sudato. Che orrore! Che fastidioso tedio alberga nel tuo intimo!

La vendetta urla dentro il tuo petto. Sei un precario anche di ciò che non dici. Neppure quelle parole non pronunciate ti appartengono. Hai lasciato scegliere agli altri per comodità ed ora sei scomodo, stretto, stipato in una casa dalla tovaglia di plastica che ti si appiccica alle gambe.

“Mi passi del sale?” – pronunci piano, quasi spaventato all’idea di disturbare. In fondo in quel silenzio che male ci potrebbe mai essere? Spezzarlo comporterebbe il rischio che lui o lei parli improvvisamente, rompendo l’idillio.

Il volume della tv è alto, nessuno spegne o abbassa quel fastidioso ronzio di notizie nefaste.

Se devi uscire, ora è il momento giusto per farlo.

Però aspetta: se ora esci cosa ne sarà di te, là fuori? Sei davvero sicuro che starai meglio? Conviene che tu rimanga dove sei perché tanto sai di essere sempre un precario. Tanto chi ti ascolterà lì fuori? A chi potrai dire le cose che ora dici alla persona che hai accanto, troppo stanca per ascoltarle davvero?

Quelle parole sai bene che non entrano dentro di lei, ma almeno escono da te, e questo ti fa comunque sentire meglio. In qualche modo sei grato per quelle confessioni non ascoltate. Non ti fa sentire in colpa, almeno.

“Mi passi il sale?” – Vorresti pronunciare nuovamente con più vigore, magari osando anche quella punta di risentimento che ti costringe a ripeterti.

Invece stai zitto, mastichi la carne insipida che tanto è comunque buona, la tovaglia non ti dà poi tanto fastidio, e il cielo oggi è di un colore grigio che non vale la pena uscire; prenderesti freddo, ti verrebbe la tosse o peggio il raffreddore, e non puoi permetterti di stare a casa in malattia. Sei un precario, non potresti lasciare nulla di intentato, te ne vergogneresti troppo. Ti ricorderesti che mamma rimaneva delusa quando volevi soprassedere ai tuoi doveri.

Non hai più nessuno che ti ascolti. Tuttavia, una volta ti sei sentito davvero vivo, di una vita possente, volitiva, assoluta. Il suo nome era speciale, ma è durata poco, pochissimo. Un amore a termine. È stato troppo tempo fa, che ti importa di ricordarlo proprio ora? Quel ricordo resterà per sempre racchiuso in te e farà eco ogni volta in cui vorrai sentirti ancora in quel modo.

Il gatto si avvicina al tavolo, pian piano viene verso le tue gambe, puoi sentire il pelo morbido della sua coda carezzarti il polpaccio sinistro. Che diavolo vuole il gatto, se ha appena mangiato? Intanto la bistecca l’hai finita, e nessuno ha sollevato la testa dal piatto, neppure per guardare il cielo grigio di oggi.

Sospiri piano, mentre ti porti alla bocca il tovagliolo, anche quello di carta. Giusto per ricordarti che ogni cosa a quel tavolo è precaria. Usa e getta. Momentanea. A termine.

Allora che fai? Ti alzi o no, da quella tavola? Il gatto si è assopito sui tuoi piedi. Ti dispiace disturbare i suoi sogni. Tu non vuoi che siano disturbati come i tuoi. Da buon essere umano desideri che anche il gatto abbia un po’ di quiete. In fondo sei una brava persona, sei stato solo sfortunato, ma dentro sei un impavido e se solo avessi potuto, avresti cambiato le carte in tavola.

Avresti. Ecco, appunto.

“Se esci puoi passare a prendere un chilo di mele e due banane da Gino?”

“Due banane?” – sottolinei.

“E io che ho detto?” – si asciuga le mani sul grembiule che tiene stretto sui fianchi larghi. Guardi ogni piega di quelle mani e ti chiedi come si faccia a cambiare così tanto, che razza di scherzo è il tempo che corre e capovolge gli eventi.

“Non credo di voler uscire, ho del lavoro da finire che devo consegnare domattina in classe”.

Nessuna risposta. Nessun disappunto. E chi se ne frega, magari da domani la frutta e la verdura avranno le gambe e ci vengono loro direttamente a casa. Si auto consegneranno. Pensi possa essere plausibile.

A testa bassa ti rimetti a correggere compiti. Sei un precario, però i compiti dei ragazzi devi correggerli. Tu li ami quei “pischelli”, anche se ti prendono in giro e ogni tanto qualcuno ha anche tentato di fotterti la bicicletta.

Sei troppo occupato per preoccupartene. Hai un obiettivo, hai un incarico a termine, ma non ti manca il coraggio.

Sei un precario. Però impavido. Un impavido precario.

Letizia Turrà

Quella voglia folle di abbracciare mia madre.

Ieri sera ho avuto una voglia folle di riabbracciare mia madre.

Ormai con il passare del tempo sono arrivata a pensare a me come se fossi io il genitore tra le due, e lei la bambina che non è mai potuta crescere.

Sarà che rimpiango una donna bellissima che ho visto sfiorire.

Mia madre teneva molto al suo aspetto, era sempre truccata e ben vestita, portava spesso lo smalto rosso sulle unghie con una sola linea al centro, come si usava portarlo in quegli anni.

Aveva le mani e il corpo magrissimi, la pelle diafana e un cespuglio enorme di capelli scuri. Piccola, minuta, ma con due occhi grandissimi in grado di catalizzarti.

Era diventata un giunco quando la vidi l’ultima volta. Sarà un ricordo che non potrò mai rimuovere dalla mia mente. Nessuno riuscirà mai a convincermi del fatto che “doveva andare così”. Vaffanculo – ho pensato spesso – perché a me non andava bene per niente che fosse andata così.

Vorrei abbracciarla perché talvolta mi pento del mio essere stata una bambina tanto spinosa e capricciosa. Ero aspra come il limone, spigolosa e viziata, e ho ricevuto più abbracci da lei di quanti avrei dovuto dargliene. Mia madre mi ha insegnato davvero cosa fosse l’amore, quello che non richiede NULLA in cambio; quello che si dà senza avere paura di niente. Forse se l’avessi abbracciata di più non sarebbe stata tanto triste, e forse adesso sarebbe ancora qui.

Non sono mai più riuscita a provare lo stesso sentimento che nutrivo per lei. Nei rapporti che ogni giorno intraprendo, penso al fatto che prima o poi dovrò adeguarmi al distacco, allo sconforto che deriverà dalla delusione, al senso di abbandono che tanto sembra voler contornare la mia esistenza. Ma un amore come quello nostro…è impossibile da trovare.

Solo con le mie figlie riesco ad esprimere appieno ciò che da quell’amore sono riuscita a estrarre.

Di giorno sono spesso felice. Però la sera, quando il silenzio si fa pesante ed io ho paura di quello che sognerò di notte, in quell’istante desidero ardentemente di abbracciarla. Non di essere abbracciata, ma di abbracciarla, che è molto differente.

Alcune notti più di altre, ma il desiderio è sempre lo stesso.

Letizia Turrà

Musica di Claudio Baglioni – “Fotografie”