FNORD

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Le 4.22 del mattino. Neppure un’ora di sonno buona.

La mia pelle era rimasta morbida seppure i primi peli del viso spingessero per venire a galla.

Mi ero svegliato di soprassalto, rapito da un brusio di gemiti. Ci volle un po’ di tempo perché comprendessi che provenivano dalla televisione che avevo lasciato accesa la sera prima.

Una doccia calda mi aiutò a ristabilirmi.

Rassettai il letto, gettai i fazzoletti nel water, e risciacquai persino il lavandino come se dovessi ripulire la scena di un delitto avvenuto in casa mia.

“Caro Jules, man mano che ti avvicinerai a Irene, ti avvicinerai anche alla verità. Ricordi quanto ti scrissi a proposito della verità e della bugia?

Ebbene, non sei mai stato così vicino alla verità, quanto invece distante dalla menzogna.

Segui solo il tuo cuore, come io non ho fatto.”

Man mano che la distanza si accorciava, cominciai a riprovare tutti quei sentimenti contrastanti che avevano accompagnato l’inizio di quel percorso. Nausea, insicurezza, ignobile paura di non essere all’altezza per assolvere il delicato compito che mi era stato affidato.

Come sarebbe stata Irene? Alta, bassa, magra, grassa, bellissima o semplice?

Cosa avrebbe pensato di me?

Qual era la verità, e qual era la bugia della quale parlava Angeline?

Ebbi la netta sensazione che mi avesse nascosto qualcosa, forse qualcosa di orribile sul suo conto o sul conto della ragazza.

Avvertii un forte prurito nel palmo della mano, insieme alla stanchezza per il fatto di aver dormito poco.

Fnord non era come me la immaginavo.

Nel giro di poco tempo passai da un tratto di cielo buio ad un territorio lacustre con spiagge di sassi bianchi e limacciosi, gabbiani e pontili di legno miracolosamente sorretti dalla tenacia di acque limpide.

Uno stuolo di gabbiani volò molto vicino a me, mentre parcheggiavo.

Mi fermai sul bordo della battigia ad ascoltare il loro canto disperato, quasi simile a un urlo.

Mi sentii come loro, eternamente legato a un luogo insicuro, come era sempre stata la mia vita.

Dal suolo trasalì un odore nauseabondo di pesce marcio e acqua agrodolce che mi finì dritto in bocca. Sentii il rumoreggiare crepitante dei gusci di lumache sotto le scarpe mentre camminavo; un terreno scrocchiante e infinitamente colorato, cosparso qua e là di alghe spesse e dorate, e carcasse di pesci morti.

Il mio sguardo puntò nuovamente al pontile, su cui sostava tranquillo un gabbiano.

Presi uno dei grossi ciottoli bianchi e feci il gesto di scagliarlo contro di lui.

“Sono odiosi, non è vero?”

Una voce robusta e roca mi piombò alle spalle.

Apparteneva a un uomo alto, dal petto robusto, uno strano cappello da marinaio e un cipiglio fiero.

“Odiosi non direi, forse un tantino impertinenti. Quello sul quale mi trovo sembra un cimitero di animali morti.”

“E’ nell’ordine delle cose. Dopotutto siamo tutti cadaveri.”

Rimasi turbato da quella affermazione.

“Mi hai sentito bene, ragazzo. E’ nella legge degli animali accettare che prima o poi la fine arriverà. E’ un tipo di coscienza che noi uomini non possediamo. Ma la nostra strada non è che un tragitto roccioso e le acque talvolta possono rivelarsi inospitali costringendoci a venire a galla. E’ così che funziona sai, vieni a galla, spinto da chissà quale ragione e poi catturato da un gabbiano. Inizi ad agitarti, fino a quando il tuo corpo viene sollevato in aria per una decina di metri e l’acqua pian piano procede verso il basso. Il tuo corpo si asciuga mentre vieni riposto su una spiaggia in mezzo a centinaia di lumachine colorate. Inizialmente ti sembra si tratti dell’arcobaleno; i tuoi polmoni e ogni tuo organo interno cominciano a richiedere acqua. Ti agiti in preda all’ansia, il mare sembra ancora molto vicino, ti basterebbe un colpo di coda, e potresti raggiungerlo. Sei a un passo, quando il becco del gabbiano ti infligge il colpo fatale, dal quale non farai più ritorno. Inizierà dall’occhio che è la parte più molle, e poi arriverà alle tue interiora. In breve tempo di te non rimarrà che l’involucro esterno. Niente altro che quello, e niente più di quello, eri un pesce tra i pesci. Ora sei un cadavere tra i cadaveri. Se non si possiede questo genere di consapevolezza non saremo mai degni pesci di un lago, o degni di stare in questo mare. Le leggi della natura non cambiano, e la vita ha un valore precario da non sciupare in modo effimero. Non è forse vero che la morte è l’ultima tappa di ogni essere vivente? Ebbene, è la morte l’unica cosa davvero sincera in questa vita.”

“Una considerazione sicuramente molto interessante. Devo dire che dopo queste ineluttabili saggezze, ringrazio il cielo di non essere un pesce!” sorrisi nervosamente.

“No infatti, lei è un uomo. E come tale non ha questo genere di coscienza, sebbene un uomo sappia essere peggiore di un gabbiano.”

Mi salutò lesto, poi riprese a tribolare con la sua barca come se neppure io esistessi.

 

Letizia Turrà, LACRIME DI LEGNO (2018)

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