La recensione del mese: Una famiglia quasi perfetta, tutt’altro che un Thriller!

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La storia di una famiglia sconvolta dalla scomparsa della loro unica figlia femmina.

Un dramma raccontato attraverso le parole di Jenny, la madre, che attraverso riflessioni e dialoghi più o meno espliciti cerca di trovare una risposta ai suoi dilemmi.

Dorset 2010. Un anno dopo.

“Le giornate si accorciano. Sul prato sono sparse le mele cadute, la polpa beccata dai corvi. Oggi, prendendo dei ciocchi dalla catasta al riparo del tetto, ne ho calpestata una già rammollita; si è sfatta sotto il mio piede.

Novembre.

Ho sempre freddo, ma lei potrebbe averne di più. Perché dovrei cercare di stare bene? Come potrei?”

Il libro si apre nello scenario di Dorset nella Contea di Inghilterra, a distanza di un anno dalla scomparsa della ragazza. La descrizione dei fatti è intervallata dai diversi spazi temporali, che vedono l’autrice e il lettore passare velocemente da un anno, a un giorno prima, a tredici mesi dopo, successivamente a sei giorni dopo rischiando, forse, di destabilizzare chi dovrebbe e vorrebbe seguire la storia in modo continuo.

D’altronde può succedere in un’epoca come la nostra che ci vede soddisfare quotidianamente mille richieste, con l’impossibilità di concentrarsi sulle molteplici attività, che il lettore sia poco attento e non disposto a sostenere ritmi frenetici di narrazione.

E’ infatti il primo ostacolo che si evidenzia tra le recensioni negative, oltre al fatto che il libro venga definito un “Grande Thriller”, un Best Seller senza precedenti, tradotto in 14 lingue, ai primi posti delle classifiche mondiali.

Partiamo dal chiarire la definizione del genere Thriller: “E’ una narrazione o spettacolo (teatrale, cinematografico o televisivo) imperniato su un tema poliziesco, parapsichico o fantascientifico, e costruito in modo da suscitare il massimo di tensione.”

Ho letto attentamente il libro, è accuratamente descritta ogni emozione della protagonista, e non solo, anche dei suoi figli. Posso sostenere che possieda le caratteristiche di suscitare tensione, ma me ne guarderei bene dal definirlo un Thriller. Piuttosto è un romanzo drammatico, ben scritto anche se a tratti non molto scorrevole.

Si affronta soprattutto il tema dell’illusione della perfezione all’interno del proprio nucleo famigliare. Jenny e Ted infatti sono due medici con una buona educazione, tre figli, e conducono una vita agiata. Dalla scomparsa di Naomi si troveranno divisi da incomprensioni, tradimenti e da piccole bugie che rischiano di logorare ogni coppia. Una famiglia, dunque, tutt’altro che perfetta.

La conclusione è senza dubbio inaspettata, sconvolgente anche, ma prima di giungervi si attraversa (secondo me) una strada troppo tortuosa e densa di parole, al punto che non si vede l’ora di toccare la fine (non nego di aver pensato spesso di saltare le pagine perché troppo descrittive di ogni singola emozione, ci si sarebbe potuti fermare a 60 pagine prima anche).

Mi è dispiaciuto soprattutto non leggere nulla riguardo alla biografia dell’autrice per me, come credo per tutti una perfetta sconosciuta, dato che si tratta del suo romanzo d’esordio.

Consiglierei comunque un’attenta lettura di questo romanzo, per entrare a contatto con una realtà purtroppo sempre più tangibile e reale: quella di un figlio che scompare, lasciando un grande vuoto nella vita dei genitori.

Credo che sia questo che Jane si sia prefissata di fare. Donare emozioni attraverso le parole di una madre che cerca la figlia, senza sosta, pur sapendo che da un momento all’altro potrebbe ricevere la tragica notizia della sua dipartita.

Un figlio che non fa ritorno a casa, un dolore che consuma, che logora ogni muscolo, ogni organo, ogni pensiero di coloro che lo amano, nell’attesa di vederlo tornare a casa in un abbraccio senza fine… .

A presto, Letizia T.

Image: Personal Archive Home

Perché non è giusto rinunciare ai propri sogni!

once upon a time

“Buongiorno Casa Editrice, avrei 81.660 parole del mio ultimo romanzo da mandarvi, volevo sapere come fare per portarlo alla luce e farvelo conoscere?”

La modalità è sempre la stessa, così come lo sono i sogni di chi ogni giorno stipa il suo manoscritto nel cassetto polveroso dei ricordi, nella speranza che qualcuno arrivi a riesumare questo “capolavoro” letterario del quale il lettore non potrà più fare a meno.

Sogni racchiusi in parole non dette mai, in pensieri astrusi che ci tengono svegli la notte. Fervida immaginazione che si fa largo tra le righe di un passato e un presente narrato attraverso le nostre voci; quella pila di parole per alcuni senza senso, ma per noi indispensabile esplicazione dell’anima, unico linguaggio plausibile in un mondo dal quale, in fondo, non ci sentiamo accettati e di cui sentiamo di non fare parte concretamente.

Parte la musica dei commedianti, di coloro che si mettono in attesa fra milioni di “loro”, molti dei quali davvero dotati e meritevoli sicuramente di essere ascoltati.

Scarichi un’infinita lista di 25 pagine circa con tutti gli indirizzi mail ai quali inviare la tua opera, guardi quelle che trattano il tuo genere e con le quali ti piacerebbe lavorare e invii…sperando in una risposta, quanto meno più celere del canonico periodo di sei mesi.

Ed ecco che giunge la tanto agognata replica: “La sinossi che ci ha inviato non corrisponde al genere di cui tratta la nostra Casa Editrice.”

Oppure ancora: “Mandi il suo manoscritto in versione cartacea al seguente indirizzo di posta. Il materiale non verrà restituito, e ci riserviamo di non rispondere in caso non risulti interessante quanto ci verrà sottoposto.”

Una marea di dubbi assale l’autore, egli passerà diverse ore (in alcuni casi, anche settimane) a chiedersi se “il gioco valga la candela”. Se sia giusto, cioè, mandare il proprio stampato alla Casa Editrice con il rischio che venga magari rubato, contraffatto o che gli Editori perdano il suo numero di telefono, così che nessuno saprà mai come ricontattarlo.

In molti casi, neppure tanto rari, viene richiesto all’autore emergente di pagare per vedere pubblicata la propria opera. Si parla in quel caso di Editoria a pagamento, che prevede un investimento iniziale di un bel po’ di quattrini per l’autore e di costo ZERO per la casa Editrice, che si assumerà il rischio di ingaggiarti solo nel caso in cui capiranno che sei uno che vende!

Quante volte abbiamo rinunciato in partenza, perché terrorizzati, seppure ormai vicini all’obiettivo, che il nostro romanzo non fosse stato scritto bene, o che avesse imperfezioni grammaticali o peggio ancora, che facesse proprio schifo e che piacesse solo a Zia Ernestina proprio perché è nostra zia, quindi manca di obiettività nel giudicarlo?

Per una come me che scrive dall’età di undici anni, è piuttosto deludente apprendere che si debba affrontare un tale tortuoso percorso per vedere diffuse le proprie “memorie”.

Sì, perché quello che scriviamo non sono solo espressioni buttate a caso su un foglio, sono figli che caviamo direttamente dal nostro fianco, e che non abbiamo intenzione di condividere con il primo che passa, perché un figlio non si cede, MAI.

E così parte la ricerca verso un mondo alternativo.

C’è chi ce l’ha fatta a farsi spazio nella miriade di autori. C’è un tuo amico che si è appena auto-pubblicato e si è trovato bene, così bene che si sente spinto a proseguire nel suo percorso di futuro scrittore.

Così anche tu decidi di partire.

La prima cosa che fai è recarti in libreria per trovare ispirazione tra le pagine dei “grandi” che le famose Case Editrici hanno ritenuto meritevoli di essere pubblicati.

Quindi copi i margini, tiri giù le idee, le frasi ad effetto ed in alcuni casi, se sei anche abbastanza “attento”, incontri errori palesi, erroracci grammaticali o refusi che non dovrebbero essere presenti in un libro in prima fila sullo scaffale…

Quindi cominci a riflettere, macini la consapevolezza dentro te che potrai farcela anche tu. Ma sei ignaro del fatto che vi sia un Editor dietro ogni libro che vedi nelle grandi distribuzioni.

Poi ti imbatti in un libro auto-pubblicato e vedi che è scritto benissimo, con scorrevolezza, sublime chiarezza e ti intrattiene, ruba il tuo tempo e ti fa entrare nella storia.

Poi ne leggi un altro ancora e trovi una marea di errori, è scritto obiettivamente male, è un brutto libro.

Molti credono (erroneamente) che siccome vi sia un auto produzione dietro un libro, esso non godrà di una buona qualità perché non ha la “spinta giusta”.

Non c’è concetto più sbagliato.

Il Selfpublish è un ottimo modo per farsi largo e rendere noto il proprio talento anche ad un pubblico di nicchia, che pian piano, con i mezzi giusti, potrebbe diventare più ampio.

Cominci ad usare anche tu quella piattaforma, alcuni acquistano incuriositi. Quasi mai senti arrivare un “Brava/o” dagli amici o dai parenti, che ti aspetti invece si complimentino con te per il tuo operato; fai tutto da solo perché vuoi dimostrare a te stesso che ce la puoi fare e un secondo dopo la pubblicazione il cuore ti sale in gola come cibo solido, pronto da masticare per il timore di avere fatto una cazzata.

Piovono complimenti e critiche, che fanno male come pugni dritti in faccia, non capisci dove hai sbagliato, cosa non abbia entusiasmato il lettore; lo stomaco si contorce perché si parla di qualcosa di tuo.

Poi vai sui principali motori di vendita e ricerca, e vedi che anche sui libri stra venduti la gente ha pur sempre qualcosa da dire.

È difficile scrivere, fare lo scrittore, è difficile SOGNARE in generale, perché la vita le tenta tutte per spezzarti le gambe.

È per questo che vi dico: CONTINUATE A SCRIVERE, NON MOLLATE, SIATE AFFAMATI DI PAROLE E CERCATE LA CONSAPEVOLEZZA IN VOI, SENZA ASPETTARVI CHE ARRIVI DALL’ALTO LA RISPOSTA CHE STAVATE CERCANDO!!

Su questo ora rifletto, mentre il mio gomito viene sorretto da un libro per il quale mi accingerò tra qualche settimana a fare la mia recensione.

Non dirò il titolo, ma è uno di quelli vendutissimi di una Casa Editrice “grossa”. Ho dato un’occhiata alle recensioni molte delle quali negative, che mi hanno fatto pensare che lo leggerò proprio perché voglio farmi un’idea mia, non accetto di vivere sul riflesso di ciò che pensano gli altri.

Non smetterò mai di scrivere questo è certo, anche se le mie parole rimarranno pile di parole, una affianco all’altra, nel mare degli emergenti.

Come Jeremy Irons sosteneva:

Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo. Alcune ci riportano indietro, e si chiamano ricordi. Alcune ci portano avanti, e si chiamano sogni.”

A presto, Letizia T.

Image credits: Google research

Non si rubano i ricordi delle persone, morte o vive possano essere.

 

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Osservò il soffitto con il grande specchio.

<<Da molto non sentivo queste parole, non so ancora se mi sento pronta per una relazione fissa con un uomo.>>

<<Ti lascerò tempo per pensare, non voglio tu prenda decisioni affrettate, preferisco tu ti senta pronta a liberarti dai tuoi demoni prima.>>

<<Lo sai, nessuno li aveva mai chiamati così prima d’ora. Solo…>>

<<Forse solo John? Si vede che io e lui non siamo poi così diversi. Anche io mi nascondo dietro ai miei capelli, sotto quel Borsalino. Tutti noi abbiamo dei demoni che ci rendono ricchi e poveri, allo stesso tempo.

Dobbiamo solo scegliere di far diventare trampolino ciò che ci appare come uno scoglio.>>

<<Mi piace la tua camera, ha dei colori così neutri, nulla prende una posizione netta qui. E’ proprio il luogo adatto per farti stare bene.>>

<<Sono molto selettivo, poche donne sono arrivate a vedere questa casa. Non faccio vita mondana, non organizzo feste né tantomeno mi intrattengo con chiunque.>>

<<Non assomiglia affatto alla camera dove dormivo io a sei anni. Quando ero piccola mia madre mise uno scheletro di gomma nella stanza. Non potevamo permetterci una camera tutta per me così, nelle notti in cui lei vedeva altri uomini, io dormivo sul divano letto in sala da pranzo. Era duro e gelido. Non so chi avesse pensato di regalarle quello scheletro. Ricordo solo che ne fui terrorizzata dal primo istante. Mi alzavo spesso la notte, svegliata di soprassalto dai rumori provenienti dalla stanza di mia madre. Così mi recavo fino alla sua porta e dal buco della serratura mi mettevo a spiarla mentre faceva sesso, guardando tutto dall’inizio fino alla fine, con le budella che sentivo contorcersi per la paura di essere sorpresa e il terribile fastidio che mi arrecava vedere mia madre avvinghiata ad uno sconosciuto a fare qualcosa per me di misterioso. Imparai molto presto come nascono i bambini, e anche cosa era la masturbazione. Quando l’amplesso terminava, mi rimettevo subito nel letto perché nessuno si accorgesse di me e i miei occhi ritornavano subito lì, a quella parete con lo scheletro. Mamma mi diceva che era solo un giocattolo, e che i miei tormenti erano riconducibili all’abbandono che mio padre ci aveva inflitto. Così spesso mi rifugiavo nell’unico luogo in grado di donarmi pace: il campo santo.

Mi piace il silenzio che si respira all’interno dei cimiteri. I pini scossi dal vento nei mesi invernali sembrano quasi voler parlare ai passanti.

Ti ricordano che un giorno faranno da ombra alla tua di tomba.

Avevo una brutta abitudine: prelevavo statuette, candele e ogni genere di oggetto dalle lapidi che i parenti avevano lasciato lì in segno di ricordo per il loro defunto. Andai avanti per parecchio tempo, fino a quando un pomeriggio rubai la statuetta di S. Michele Arcangelo dalla tomba di un vecchio signore, un certo Alfred. Iniziai ad avere terribili incubi la notte con dolori lancinanti allo stomaco. Capii che i morti reclamavano i loro oggetti, avevo preso qualcosa che gli apparteneva e per tale motivo, erano venuti a disturbare il mio sonno. Così io e mia madre riportammo subito il cimelio laddove lo avevo preso e il vecchio Alfred non venne più a tormentarmi. Imparai una grande lezione: non si rubano i ricordi delle persone, morte o vive possano essere.>>

<<Ciascuno di noi deve convivere con i propri incubi Patricia. A volte dobbiamo pagare per gli errori di altri, in altre circostanze, per quelli compiuti proprio da noi stessi. Certe cose le avresti superate velocemente, se solo avessi imparato a perdonare, a lasciare andare.>>

LETIZIA TURRA’ “Il posto più bello del mondo è da nessuna parte”, maggio 2016, Edizioni Narcissus

Image credits: Google research