Il senso sopra a ogni altro…

 

ph: Alessandro Pagni, “Lultima glaciazione”

 

Il sibilo delle labbra inumidite stringono i fianchi della sigaretta.

Rivivi un pomeriggio, avviluppati in uno spazio che è più di un talamo: è un bisogno che vede due corpi distratti per il mondo esterno unirsi nella penombra di una stanza sconosciuta prima di allora.

Lame di luce tentano di entrare dalle persiane semichiuse; il sole è quasi infastidito dalla mancanza di spazio.

Ti volti a guardare quel raggio sottile che quasi infimo si insinua tra le pieghe della tua carne.

Quelle micro particelle si posano sulle gambe, poi sui seni, infine sul corpo di lui. Solo tu puoi vederle, solo tu le percepisci; neppure lui ne comprende l’importanza.

Nessuno sa di voi, rintanati lì, intenti a respirare ogni cosa: i rumori in lontananza, il ritmo del respiro, il pulviscolo che risuona a pochi centimetri sopra i vostri corpi, che balla nella luce come carta portata dal vento; i tuoi lunghi capelli rossi che ricadono sul suo petto imperlato di sudore; le labbra che non si abbandonano; dei “ti amo” urlati e altri sussurrati che non vogliono finire; la paura della morte che avverti nello sterno; il bisogno di nutrirsi ed essere nutriti.

Un nutrimento composto di umori, odori, piccoli e immancabili gesti e conversazioni perdute racchiuse fra le dita; la bocca, la lingua, la saliva, le braccia protese verso il soffitto della stanza; le ascelle come incavi sicuri, certi.

La linea che trascina come fosse fame, per poi finirti dritta in gola.

«Come si può dare un nome a tutto questo?» la tua voce sempre corposa, ora trema come un fuscello sospinto dal vento.

«È il senso sopra a ogni altro…».

Le sue parole capovolgono ogni tuo dubbio.

Lo abbracci, i brividi si espandono. Sai che è solo questione di attimi, l’onda ripartirà, travolgendovi nuovamente.

In sottofondo, nella stanza:

Letizia Turrà

 

L’amore incompiuto…

 

Edouard Boubat
ph: Edouard Boubat

 

Quando lo vidi lì, fermo sui gradini gelidi di quella che sarebbe dovuta essere la nostra casa, compresi subito che era stato uno sbaglio trattenere tutto quell’amore così come si vorrebbe trattenere il pianto in un palmo di mano.

Avevamo arrestato gli anni, il tempo, le stagioni sulle nostra ossa erano progredite come i rami di un albero, continuando a produrre foglie che ora pian piano cedevano il passo alla strada che avevamo percorso lontani, impassibili.

Mi fu chiaro che lo avevo sempre amato, e che lo avrei aspettato sempre, anche se questo si sarebbe tradotto nell’invecchiare precocemente di solitudine.
Nessun suono accompagnò i miei passi, tranne le sue mani tese in direzione della mia giacca.

La tirò a sé, la strinse creando delle pieghe languide; mi tirò con la prepotenza di chi desidera accorciare le distanze; non potevamo annullare la sua presenza, quella della distanza; potevamo solo avvicinarci per accondiscendere il dolore.

Solo quando mi baciò la mia sete si placò; fummo pelle, saliva, labbra, sangue dello stesso sangue, brividi coscienti. Eravamo nostalgia, braccia che si congiungevano.

Come può consumare le membra l’amore quando è incompiuto, quando l’unico fuoco che conosci è proprio quello a cui non puoi permettere di bruciarti.

Letizia Turrà