
Per tutto il tragitto che percorremmo a piedi lungo i vicoletti, ebbi la sensazione che il suo nome mi appartenesse come qualcosa di sacro, come se la mia bocca dovesse pronunciare quel nome perché io e lui ci eravamo già conosciuti in uno spazio ancestrale precedente. Già solo pronunciarlo la prima volta, mi aveva fornito quella sicura consapevolezza.
I nostri passi erano lenti, silenziosi, mentre le nostre spalle appesantite dagli zaini combaciavano, di tanto in tanto.
Decisi che lo avrei portato a vedere la nostra casa sull’albero.
Quando giungemmo lì e la vide, i suoi occhi si illuminarono.
«Questa sì che è una vera casa sull’albero! Ne ho sempre desiderata una, ma non ho mai trovato un degno alleato che volesse costruirla con me!».
«Io e Jonas, mio fratello, abbiamo intrapreso questa specie di missione quasi tre anni fa. Giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, callo dopo callo, stiamo tentando di ultimarla. Mancano ancora delle assi, quindi non ti consiglio di salirci. Un giorno, ne sono certa, sarà come una vera casa».
Sorrise con tre quarti della bocca mentre continuava a fissarmi negli occhi.
«Tu guardi sempre così le persone?». Pronunciai colma di imbarazzo.
«Così come?».
«Negli occhi dritto così, intensamente. La cosa mi mette in imbarazzo».
«Guardo così solo chi mi piace».
La sua risposta era stata spiazzante, non lasciava spazio all’immaginazione o all’indecisione. Marcel riusciva ad essere affilato come una tagliola.
Sorrisi toccandomi la punta del naso con la mano.
«Siamo qui per pattinare. Vuoi che ti insegni come si fa, o sei già in grado di farlo?».
Non rispose, si infilò i pattini e si portò la cerniera del cappotto alla base del collo. Poi allungò la mano e mi invitò a seguirlo.
Pattinammo a lungo, sostanzialmente senza dirci nulla, poiché non ne sentivamo la necessità. Fu come se quel momento avesse subito una catarsi unitamente al candore della nostra adolescenza, in veste di compagna ancora sconosciuta.
Nel ritorno a casa mantenemmo ancora quel silenzio placido e irreale che si riserva agli amici che si conoscono da tanto.
Passando davanti alla casa dei Sachs, avvertii la vergogna per il fatto di essermi negata al telefono quando aveva chiamato Pauline. Non vi era una ragione specifica che giustificasse il mio comportamento nei suoi riguardi. Forse era la paura di essere vista in compagnia del mio nuovo amico, a mettermi in allarme più di ogni altra cosa.
Tuttavia, nel profondo sapevo che era la cosa giusta da fare.
Avevo avvertito il medesimo senso di colpa anche quando per la prima volta, qualche giorno dopo, io e Marcel facemmo l’amore.
Ricordo la mia espressione di terrore mentre circondava i miei seni con le sue mani che mi parvero così grandi al punto da raggiungere ogni parte di me. Cedetti a quel bisogno spinta dapprima dalla curiosità, infine dalla voglia di essere violata proprio da lui.
La mia camicetta si era macchiata dell’unico fiotto di sangue fuoriuscito dal mio intimo, esplorato in precedenza solo da un’altra donna.
Avevamo ripetuto quei gesti per infinite volte; nello spazio tra un lavaggio e l’altro avevamo bevuto della birra, deliziata avevo letto ad alta voce le ultime righe del libro di Simenon – quello che parlava dei due amanti – e avevo guardato a lungo il corpo di Marcel mentre lasciava scorrere l’acqua in bagno.
Mi ero sentita libera in quella camera dalle pareti scure, tutto il contrario dell’azzurro descritto da Simenon; avevo toccato il mio intimo con la punta delle dita riscontrandovi un certo rigonfiamento; guardando in basso avevo anche provato a verificare che non fosse troppo arrossato e poi, dopo svariati tentativi falliti, ero ritornata con lo sguardo al soffitto bianco, chiedendomi se in quel momento qualcun altro nel mondo stava provando quello che anche io provavo.
Mi chiedevo se anche Pauline fosse felice come io sentivo di esserlo, in quel preciso momento.
Letizia Turrà
emozioni forti
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Sì Costa❤️ un abbraccio!
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