Con il cuore che batteva forte in un modo simile a quando aveva conosciuto in passato John, scese dal tram che la lasciò esattamente davanti al civico 41.
Avanzò lentamente senza prestare molta attenzione al rumore dei suoi passi sul pavè milanese.
Aveva scelto un jeans nero e una maglietta piuttosto scollata per presentarsi al cospetto di quell’uomo sconosciuto.
Di fronte all’ingresso del famoso Teatro Manzoni, entrata nell’atrio, Patricia si trovò davanti allo spettacolare cortile del Palazzo Borromeo D’Adda.
Sul cancello era riportata una corona dorata, un simbolo probabilmente associato allo stemma di famiglia. Al piano terra vi erano anche degli Show Room di alta moda, una cosa non difficile da trovare data la vicinanza con Montenapoleone.
Come da istruzioni che le erano state impartite, suonò il campanello numero 9.
<<Sì, chi è.>>, replicò una voce forte e con accento del sud.
Patricia pensò di aver sbagliato.
<<Buonasera. Mi scusi cercavo il Sig. Scott, ma è evidente che ho sbagliato interno.>>
<<Non ha sbagliato, vengo a prenderla fuori io Signorina, mi aspetti.>>, disse l’uomo dall’altro capo.
Rimase in attesa che arrivasse qualcuno, dando una sbirciata all’interno del cortile settecentesco, pieno di piante e sontuose statue di Dei o forse di poeti.
Arrivò un corpulento esserino di un metro e sessanta con un mazzo di chiavi in mano, più grande delle sue mani stesse.
<<Buongiorno Signorina, io sono Gustavo. Scott la attende in casa, mi segua.>>
Patricia non sapeva se sentirsi onorata per tutta quella riverenza, aveva persino l’accompagnatore che le avrebbe permesso l’accesso diretto all’appartamento.
Giunti all’ultimo piano, davanti all’ingresso, non potè fare a meno di notare che vi era un bastone all’interno del porta ombrelli, e un’etichetta asettica riportante il nome del proprietario sulla porta, con quello stesso carattere, identico a quello del biglietto da visita che Scott le aveva lasciato il giorno prima.
Quattro mandate di chiave molto potenti dopo, la introdussero all’interno dell’appartamento.
<<Ecco, qualsiasi cosa della quale dovesse avere bisogno, richiami il numero 9 ed io sarò lieto di servirLa.>>, disse Gustavo chiudendo la porta alle sue spalle con altre quattro mandate.
Si sentì come in trappola, chiusa in quella scatola.
Al contrario di quello che ci si potesse aspettare da un attico, l’interno era buio per via dei pesanti tendaggi di cotone egiziano che ricoprivano le finestre.
Alle pareti, per ogni stanza, vi erano una trentina di quadri vintage, raffiguranti immagini di vita quotidiana del dopoguerra, e quadri con opere più o meno note, riproduzioni di artisti locali in base alle opere di famosi pittori, posti a una distanza di un centimetro l’uno dall’altro.
Una montagna di riviste storiche e libri documentaristici ricoprivano il tavolo basso di legno massiccio.
Sui bauli utilizzati come porta oggetti, foto di infanzia in bianco e nero. Poco più in là, un vecchio Zhiter, una cetra di legno, anche quella vintage.
Tutt’intorno aleggiava un trepido rigore, nella più totale mancanza di identità, senza troppe pretese né vita ad illuminare interni al contrario tanto meritevoli.
Patricia cercò di scovare tra gli oggetti il libro simbolo della diatriba, senza riuscirvi.
Capì che quella tortura non si sarebbe risolta in breve tempo come sperava.
Il suo occhio attento cadde su un altro strumento, un registratore a cassette.
Allungò la mano per toccarlo.
<<… E’ un registratore a cassette Tascam Portastudio, è lo stesso che usò Bruce Springsteen per le registrazioni delle tracce di “Nebraska”.>>, ritirò il braccio quando sentì quella voce provenire dal silenzio del corridoio.
<<Si intende anche di musica quindi?>>, disse incuriosita.
L’uomo restò nell’ombra e non rispose. Con la mano le indicò di sedersi davanti a lui.
Work in progress di Letizia Turrà
Photo: Google books