“Capelli rossi, fermi sulle spalle.
Cinabro, anzi ancora meglio, vermiglio.
Di un rosso intenso i capelli e di un chiarore spiccato, come la luna d’inverno, la pelle.
La ragazza colta e bellissima siede sulla panchina e sta leggendo. Forse uno di quei romanzi che le resteranno addosso per tutta la vita.
Non si cura dei passanti, non si cura del vento che le scompiglia i capelli, non si cura degli sguardi altrui.
La ragazza è immersa nel proprio mondo, le parole in rilievo di quel libro entrano nell’iride e perforano la mente; indagano su di lei, la perfezionano, la rendono viva.
Vorrebbe essere innamorata perché non lo è mai stata, ma lei sa che l’amore è bello se fa l’amore.
Come vortice richiama chi è amato e avvolge tutto il resto. Dunque l’amore richiama l’amore.
Ecco perché dovremmo iniziare a praticarlo anziché passare il nostro tempo solo a descriverlo.”
Fu così che mio padre la descrisse in un taccuino che portava sempre con sé per prendere spunti, appunti, imprimere emozioni e parlare di tutto ciò che lo colpiva.
Quella donna, descritta tanto dettagliatamente, era mia madre.
Era sempre stato un ragazzo timido e lei in qualche modo lo faceva sentire in parte in soggezione, in parte libero.
Con lei era possibile godere di quella emancipazione che a mio padre era stata spesso preclusa.
Era talmente naturale, priva di sovrastrutture e così dannatamente fuori dalle regole e dai dogmi da sembrare fatta per stare al mondo con quel suo essere meticolosa ma spontanea, sicura ed esperta.
Letizia Turrà, “Il labirinto di orchidee” (2015)
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