Parlavo proprio ieri del suicidio.
Eravamo a tavola, di fronte a un piatto di pollo ripassato in padella e quasi ridevo al pensiero del rimescolio di quegli avanzi del pranzo riproposti come talvolta ti si ripropone la vita: rimestata insieme ad altri ingredienti che te la fanno apparire come nuova e più gustosa da assaggiare.
Nel banchetto della vita ci finiamo tutti prima o poi, volenti o nolenti; è il gioco violento e meschino degli eventi.
Tenevo un libro sul tavolo; un libro che amo, uno di quelli che ogni volta che ne apro anche solo un lembo, sembra avere il potere di rispondere ad ogni mia domanda interiore.
Mia sorella mi chiede incuriosita di chi sia quel libro.
«È di Sergio Claudio Perroni» rispondo stizzita, quasi con la pretesa che lei dovesse sapere chi è.
Sbarro gli occhi, per un attimo mi rendo conto che forse alcune persone e le loro parole appartengono solo a noi; anche Sergio, forse, apparteneva solo a me che ritrovo nei suoi scritti un significato immenso alla stregua di un macigno, inaccettabile da mandare giù.
Le racconto di una conversazione avuta con lui lunga appena quattro righe su Messenger, nella quale mi ringraziava per il fatto di condividere i suoi scritti e mi chiedeva con tono canzonatorio di citare anche il titolo dell’opera per invogliare il lettore a ricercarla. Poche frasi, asciutte e gentili seppure affilate. Scopro dalle parole di quanti lo conoscevano intimamente, che era solito esprimersi così con chiunque incontrasse.
Le racconto di come si è tolto la vita e quasi non riesco a trattenere l’emozione, come se quello morto fosse un amico che conoscevo da tempo.
Così il discorso si complica; il cibo in bocca muta in sapore e assume un tono più bruciante; la forchetta viene da me abbandonata sul tavolo perché voglio, devo leggerle le parole scritte nel libro “Entro a volte nel tuo sonno” che tanto ha attirato la sua attenzione.
Veniamo entrambe catturate da quel turbinio di parole semplici, pulite e profonde, taglienti e al contempo sananti.
Sergio si è sparato. Si era recato nel solito bar in cui andava ogni mattina; indossava solo un leggero giubbotto senza le maniche. La pistola si trovava in auto, l’aveva portata con sé il giorno prima. Quello che ha visto alla fine è la baia azzurra e piena di barche a vela. A maggio la costa si popola di vele e a lui piacevano le vele (queste parole mi sono state scritte da Cettina Caliò, sua moglie – che ringrazio – in correzione di quello che i giornali sostenevano).
Non lo ha fatto per vigliaccheria, ne sono certa. E non lo ha fatto in modo tradizionale, bensì di fronte a persone ignare di quanto un dolore possa toccarti nel profondo se non ti riguarda direttamente. Così si è ucciso nel centro della città dove risiedeva di fronte ai passanti, in pieno giorno.
Perché abbia scelto di farlo così non mi viene neppure da chiedermelo. Forse perché io lo comprendo, so cosa significhi sentirsi “diversi” tra la gente che vive di luoghi comuni e di credenze tra una parola di speranza e un agnosticismo pedante.
E se servisse compiere un gesto così estremo per risvegliare la massa dormiente che pensa solo a sé, incurante di quanto la circonda? Se quel colpo di pistola quel giorno non abbia davvero cambiato il mondo interiore di qualcuno, consentendogli di vedere al di là del proprio modo di vivere? Se non fosse anche quello di Sergio un invito a VIVERE davvero?
Chissà a cosa deve aver pensato poco prima di premere il grilletto; quello è il pensiero che mi lacera.
Per me è ancora vivo, solo che non ha lasciato fare alla vita come disse una volta in un’intervista. Ha scelto lui per sé e un po’, forse, anche per lei.
Sono passati molti giorni, e per me è come se non fosse morto. Non credo possa morire mai qualcuno che ha saputo donare così tanto agli altri attraverso i suoi scritti.
E con una punta di invidia leggo gli articoli di quanti lo hanno conosciuto, hanno lavorato con lui o hanno avuto l’opportunità di fotografarlo, come nel caso di Natalino Russo.
Qui il link con il suo ricordo di quei momenti.
«Forse a chi si toglie la vita manca Dio», mio marito asserisce mentre mi aiuta a caricare la lavastoviglie.
«Non credo che sia questione di Dio. Molte persone non ne hanno bisogno per tutto il corso della loro vita». Rispondo schiettamente.
Prima di andare a letto ieri sera ho riposizionato il libro al solito posto, in cima ai miei libri preferiti, pronunciando dentro di me una piccola preghiera, conscia che potesse anche non servire a niente.
Ciò che desideravo era che arrivasse a Sergio la mia comprensione, la pace di cui tutti necessitiamo, e la mia stima come lettrice, prima ancora che come autrice.
Chi scrive non muore mai per quanto mi riguarda, come ciò che ha scritto di suo pugno, che resta in eterno.
Letizia T.
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